Bangladesh

Fabrizia Paloscia 

Non è la prima volta che, in paesi a forte crescita, accadano incidenti sul lavoro di portata macroscopica. La crescita se non è accompagnata da politiche di responsabilità sociale integrata, ovvero da sistemi gestionali che garantiscano la qualità del processo e del prodotto, l’attenzione alla condizione dei lavoratori e l’attenzione all’ambiente naturale lungo tutta la catena di fornitura, non evita quegli effetti che una crescita incontrollata determina. È proprio la perdita della sicurezza, della prevenzione e della protezione nei luoghi di lavoro che caratterizza le produzioni non socialmente responsabili. Spesso ne abbiamo sentite sia in Cina che in India che in Turchia oltreché del paese di cui qui  ci occupiamo.

Il Bangladesh è un paese che negli ultimi anni è cresciuto molto. Nell’ultimo biennio il PIL si è attestato intorno al +7%. Quindi politiche di attrazione degli investimenti e delle lavorazioni sono state compiute da piani nazionali che hanno favorito l’arrivo di player europei e americani della moda. Infatti è atteso dal comparto del tessile e dell’abbigliamento un consistente contributo alla crescita. Il settore rappresenta l’80% delle esportazioni anche se si trova a fronteggiare una maggiore competitività di paesi a bassi costi di produzione come Vietnam e Cambogia, ed una stentata crescita economica nei principali mercati di esportazione. In questo scenario, che sembrerebbe quasi tutto positivo, si collocano le stragi degli ultimi anni e mesi.

Gli episodi

Il 24 dicembre 2012, alla fabbrica tessile Tazreen  muoiono 112 persone arse vive.  Il 24 aprile 2013 il crollo dell’industria Rana Plaza, sempre tessile, determina la morte di 1127 e circa 1650 feriti.

Purtroppo la causa della tragedia al Rana Plaza era del tutto prevedibile, quindi pone una grave responsabilità su tutti i marchi che si rifornivano delle subforniture durante e prima che il crollo avvenisse.

Nel 2005 il crollo della fabbrica  Spectrum aveva mobilitato le organizzazioni dei lavoratori che avevano messo in guardia i marchi informandoli che gli edifici a più piani nell’area di Savar, vicino  Dhaka, erano e sono pericolanti. Il fatto che, il proprietario del Rana Plaza avesse potuto aggiungere illegalmente dei piani allo stabile avrebbe dovuto essere denunciato e avrebbero dovuto essere prese misure immediate per garantire la sicurezza dei lavoratori.

Ciò che va tenuto molto presente è quanto sia devastante per le famiglie coinvolte la perdita del lavoro e dei salari. L’immenso numero di situazioni invalidanti determina persone che non potranno più lavorare. Le storie di disagio sono moltissime. Una donna ha raccontato ai media che sua nipote stava lavorando al Rana Plaza da appena un mese quando è stata sepolta dalle macerie. Ha raccontato di non essere riuscita ad ottenere assistenza da nessuno: “Siamo molto poveri, non so dove chiedere aiuto”.  La nipote era l’unica, come in molte famiglie, ad avere un lavoro.

Nonostante molti marchi abbiano annunciato pubblicamente di prestare soccorso alle vittime, a metà maggio la maggior parte delle famiglie dei deceduti nel Rana Plaza non hanno ancora ricevuto alcun supporto economico pur essendo un diritto previsto dagli standard dell’ILO – Organizzazione Internazionale del Lavoro, oltreché da un principio di giustizia generale.

È triste dover ammettere che il governo bengalese, pur di attrarre committenti,  abbai chiuso un occhio davanti a condizioni tragiche, permettendo ai fornitori di tagliare i costi per produrre vestiti con ritmi e costi dettati da alcuni giganti globali della moda. Spesso alcune grandi marche dicono di fare dei controlli, ma i lavoratori affermano che le ispezioni delle aziende non sono affidabili.

L’accordo sulla sicurezza a sostegno dei lavoratori prevede ispezioni indipendenti, rapporti pubblici sulle condizioni delle fabbriche dei fornitori e provvedimenti obbligatori. Sarebbe applicabile persino dalle corti di giustizia dei paesi d’origine delle aziende stesse. Non sono ancora noti i dettagli su quali aziende comprassero dalla fabbrica crollata. Ma, in una intervista comparsa sul Huffington Post al Chief executive, Biagio Chiarolanza di Benetton dichiara che le magliette venivano comprate da una azienda chiamata New Wave Style, una delle tante fabbriche di abbigliamento operante nell’edificio Rana Plaza.

Molti operai, la maggioranza sono donne, sono morti in altre fabbriche di fornitori di GAP e H&M in Bangladesh, quindi coinvolgere queste marche significa fare in modo che altre aziende le seguano.

Le regole internazionali esistono

Tutti i marchi dovrebbero fornire sostegno finanziario immediato e risarcimento pieno ai fornitori. Nessuna impresa può sottrarsi a questa responsabilità sia per principi umani, sia per principi e regole internazionali espresse sia dall’ILO- International Labour Organization sia dall’OCSE con le Linee Guida per le multinazionali e tutte le imprese rinnovate il 25 maggio 2011.

Ciò che di positivo è successo, anche se purtroppo con il prezzo di queste stragi, è l’impegno assunto dai marchi che hanno sottoscritto l’Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh per prevenire future tragedie e si impegnano a raggiungere l’obiettivo di una produzione sicura e sostenibile nel Bangladesh sul settore industriale del pronto moda (Ready-Made Garment -RMG). Istituire un programma di sicurezza in edilizia e antincendio per un periodo di cinque anni. Il programma si baserà sul Piano d’azione nazionale per la sicurezza antincendio (NAP), che accoglie con favore l’elaborazione e l’attuazione da parte di tutti gli stakeholder [1] per un miglioramento della sicurezza antincendio in Bangladesh. I firmatari si impegnano a garantire una stretta collaborazione del programma con quello nazionale istituendo azioni comuni, di collegamento e di consulenza, alle strutture e riservando un ruolo forte per ILO, attraverso l’ufficio del Bangladesh. Inoltre, e di estrema importanza, si impegnano a sviluppare e concordare un piano di attuazione entro 45 giorni dalla firma del presente Accordo che finanzia e attua un programma che darà conoscenza delle attività pratiche che hanno come campo di applicazione: governance, ispezioni credibili, bonifica, formazione, reclami processo, trasparenza e rendicontazione, incentivi fornitore, sostegno finanziario alle aziende.

Le Ong chiedono

A tutti i marchi, che utilizzavano le produzioni realizzate al Rana Plaza e alla Tazreen, di impegnarsi a pagare le cure immediate e un risarcimento completo ed equo ai lavoratori feriti e alle famiglie delle vittime, in linea con le metodologie e i calcoli stabiliti dai sindacati. Inoltre chiede che sempre i marchi collaborino con i sindacati del Bangladesh e le organizzazioni che rappresentano le vittime, così come con IndustriALL, la confederazione sindacale globale che rappresenta i lavoratori del tessile, al fine di garantire che tutti i pagamenti siano effettuati secondo un processo trasparente e concordato. La Clean Cloth Campain (CCC) e  la CCC italiana, Campagna Abiti Puliti, hanno chiesto il supporto a tutti i cittadini del globo  affinché sia fatta giustizia per le vittime del Rana Plaza e della Tazreen. Alcuni brand hanno dato la loro disponibilità a partecipare al meccanismo di risarcimento, che va garantito a tutte le vittime. Le Ong [2] su questo punto non smetteranno di chiedere giustizia. I marchi possono fare pressione su altre imprese e sul governo bengalese per costringerli a pagare, creando un precedente importante che riconsegni dignità alle vittime delle due tragedie.

La somma necessaria a costruire il fondo di risarcimento per la tragedia del Rana Plaza ammonta a circa 54 milioni di euro, mentre quello per l’incendio alla Tazreen a circa 4,5 milioni di euro. Queste cifre sono state calcolate dai sindacati bengalesi e internazionali sulla base di altre tragedie precedenti e degli standard dell’ILO. I marchi devono assumere l’onere il 45% del totale, mentre il governo, l’associazione dei datori di lavoro bengalese (BGMEA) e i fornitori il restante 55%.


I consumatori si mobilitano e…

…le decisioni si spostano. Il 25 maggio in Italia  gli attivisti della Campagna Abiti Puliti sono scesi nelle piazze di Milano, Firenze e Napoli per chiedere ai marchi coinvolti nelle due tragedie di assumersi le loro responsabilità. I negozi di Benetton sono stati luoghi di ritrovo delle manifestazioni e oggetto di flash mob. Ma non solo, le campagne sul web, con più di 1 milione di firme raccolte, riescono a smuovere i grandi marchi e ottengono una grossa vittoria. Sarà così che  H&M decide di firmare l’accordo per la sicurezza in Bangladesh. Purtroppo altri marchi come GAP continuano a non volerlo fare. È evidente che aderire all’Accordo metterebbe meno a rischio gli stessi brand oltreché, e prioritariamente, i lavoratori. Quanto danno all’immagine si eviterebbe se si producesse applicando i pieni diritti dei lavoratori. Come clienti di tutto il mondo  le varie Ong chiedono che i vestiti che si indossano siano realizzati in condizioni di sicurezza invece che in edifici di pericolosità inaccettabile. I marchi puntano tutto sulla pubblicità, riservando a questa i costi maggiori. La riduzione di una fetta di questi riservandoli a sicurezza e dignità di salario per i fornitori, può garantire la prestigiosità vera dell’azienda che scegliendo questi principi riduce fortemente quel risk management di cui si carica quando fa la scelta opposta.

A che questo non accada più

Troppo alto il bilancio delle vittime dei lavoratori bengalesi. Troppo anacronistico morire ancora di lavoro nel millennio in cui avremmo dovuto risolvere i problemi fondamentali dell’umanità accompagnati da scienza e tecnologie. Troppo asfissiante il termine crisi come panacea per giustificare le lavorazioni a basso costo e insicure. Le stragi del Bangladesh hanno bisogno di una responsabilità sociale integrata, tracciata e seriamente certificata, forse non unica ma importante garanzia di giustizia e impegno di tutti a che questo non accada più.


[1] Termine ormai in voga per indicare i portatori di interesse , ovvero  l’insieme di sindacati, organizzazioni datoriali, consumatori,  mondo non profit, Ong, ecc.

[2] Organizzazioni non governative