Uno studio italiano ha valutato l’impatto a lungo termine della terapia adiuvante con farmaci inibitori delle aromatasi (AI) per il controllo del carcinoma mammario sulla salute delle ossa.

Nelle donne terapia adiuvante con farmaci inibitori delle aromatasi (AI) per il controllo del carcinoma mammario è elevato il rischio di osteoporosi. Sono state osservate fratture vertebrali già nei primi 12 mesi di terapia.

Gli esperti del GIOSEG suggeriscono la morfometria vertebrale a inizio trattamento e a un anno.

Andrea Giustina, co-autore dello studio sugli effetti degli inibitori delle aromatasi sulle ossa
Andrea Giustina, co-autore dello studio sugli effetti degli inibitori delle aromatasi sulle ossa

La terapia adiuvante con farmaci inibitori delle aromatasi di terza generazione come anastrozolo, exemestane e letrozolo è indicata per scongiurare il rischio di una recidiva del cancro al seno nelle donne in post menopausa in cui il carcinoma risultava ormono-sensibile. Circa il 70% delle pazienti infatti è positiva ai recettori degli estrogeni (ER+). Per queste pazienti le Linee Guida stabiliscono che la terapia con inibitori delle aromatasi sia seguita per un periodo di 5 anni circa, mentre per un particolare sottogruppo deve proseguire per 10 anni. Nelle pazienti oncologiche in età fertile, invece, gli inibitori delle aromatasi non sono efficaci perché agiscono sugli estrogeni prodotti a livello del tessuto adiposo mentre sono inefficaci su quelli prodotti dalle ovaie.

La terapia con inibitori dell’aromatasi è associata ad un aumentato turnover osseo dovuto ad una profonda riduzione dei livelli circolanti di estrogeni che determina una upregulation  del segnale di RANK (Receptor Activator of Nuclear factor, κB) ligando nell’osso.

«La terapia adiuvante con inibitori delle aromatasi è un pilastro fondamentale della terapia oncologica ma ha un pesante impatto sulla salute delle ossa. Le donne che seguono questa terapia perdono circa il 6% di massa ossea ogni anno, contro circa l’3% di quelle sane in età post-menopausale» – spiega Andrea Giustina direttore della cattedra di Endocrinologia presso l’Università Vita e Salute San Raffaele di Milano.

Lo studio sull’effetto della terapia con inibitori delle aromatasi di terza generazione sul tessuto osseo

Lo studio pubblicato sulla rivista Bone (2017, Jan 16;97:147-152) ha indagato la prevalenza di fratture vertebrali in pazienti prima e durante la terapia con inibitori dell’aromatasi. Le 263 donne italiane arruolate sono state sottoposte a DEXA per esaminare la densità minerale ossea, e, con la stessa metodica, a DEXA a morfometria vertebrale. Questo esame che permette di valutare l’altezza delle singole vertebre e quindi identificare eventuali fratture vertebrali esistenti. Inoltre, sono stati raccolti campioni ematici delle pazienti per misurare i livelli ormonali e il calcio.

Il campione di volontarie è stato diviso in due gruppi: uno di 94 soggetti trattati con inibitori e uno di 169 naive ossia non trattati.

«Lo studio che abbiamo condotto si basa su un concetto nuovo: cercare le più subdole e spesso asintomatiche fratture vertebrali e non quelle cliniche come anca e femore che non possono sfuggire alle pazienti. Indagando la prevalenza delle fratture asintomatiche i numeri cambiano drammaticamente e arrivano al 35% nelle donne in trattamento adiuvante – sottolinea Alfredo Berruti, Ordinario di Oncologia Medica all’Università di Brescia e co-autore dello studio. – Un aspetto molto importante che è oggi più considerato dagli oncologi medici, per i quali è importante tenere sotto controllo il rischio di recidive tumorali, certo, ma anche garantire una sopravvivenza di qualità senza rischi di invalidità e perdita di autonomia».

La prevalenza di fratture vertebrali era del 31,2% nelle pazienti in terapia contro il 18,9% del gruppo non trattato (in cui i danni ossei erano associati all’età più elevata e alla minore densità ossea a livello del femore). Ma l’aspetto più interessante è stato che nelle donne trattate con gli inibitori delle aromatasi la prevalenza delle fratture era quasi sovrapponibile tra quelle con osteoporosi e quelle con massa ossea considerata nella norma. Questo dato sottolinea l’importanza della riduzione della qualità oltre che della quantità dell’osso con queste terapie.

«Dati che hanno una rilevante importanza clinica e che devono portare ad un cambiamento nella gestione della fragilità scheletrica – prosegue Andrea Giustina, presidente del GIOSEG e co-autore dell’articolo. – Infatti, l’esame della morfometria vertebrale emerge nella sua fondamentale importanza per il follow-up dello stato di salute ossea in queste pazienti. Se il life time risk delle fratture vertebrali ammonta a circa il 40%, nelle donne che hanno avuto un cancro il rischio di osteoporosi secondaria alla terapia si moltiplica».

«Eppure secondo alcune ricerche circa il 45% delle pazienti non riceve alcun trattamento di prevenzione delle fratture e il 60% delle donne sane con meno di 50 anni non ha mai effettuato alcun esame per verificare la salute dello scheletro. Basta fare due calcoli per comprendere l’importanza di proteggere le ossa di queste pazienti con un farmaco adeguato. Al momento l’unico che si è mostrato capace non solo di aumentare la Bone Mineral Density, ma anche di prevenire effettivamente le fratture delle vertebre è il denosumab, un anticorpo monoclonale completamente umanizzato indicato per il trattamento dell’osteoporosi post-menopausale».

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