Sono oltre 2 milioni gli italiani colpiti da malattie infiammatorie croniche immuno-mediate (Immune-mediated Inflammatory Diseases IMID), come artrite reumatoide, malattia di Crohn e psoriasi, ma, a causa dei costi elevati, pochi hanno accesso alle terapie biologiche, che negli ultimi 15 anni hanno rivoluzionato lo scenario di cura.
Con l’entrata in commercio del primo biosimilare di un anticorpo monoclonale (infliximab) approvato dall’Agenzia Europea dei Medicinali (EMA) nelle malattie infiammatorie croniche immuno-mediate, ogni anno si potrebbero risparmiare 4.000 euro a paziente, per un totale di oltre 3 milioni che consentirebbero di trattare almeno 260 persone in più.
Studio di budget impact relativo a infliximab biosimiliare
Nel delicato equilibrio tra le attuali esigenze di contenimento della spesa e l’imprescindibile obiettivo di garantire ai pazienti le migliori cure, i biosimilari possono infatti fornire un valido contributo: a fronte di un’efficacia e sicurezza comparabili a quelle dell’originator, hanno un costo inferiore, che può generare risparmi consistenti, come illustrato dallo studio di budget impact relativo a infliximab biosimiliare, presentato a Bergamo durante il convegno “Biosimilari. Prospettive future e strategie di gestione tra razionalizzazione della spesa e tutela dei pazienti“, organizzato da Health Publishing and Services (HPS), con il grant incondizionato di Mundipharma
«Partendo da un dato di letteratura che prevede in Italia una prevalenza di IMID, a inizio 2015, pari a circa 2.268.000 pazienti (di cui 10.324 trattati con infliximab originator) e un’incidenza, ovvero i nuovi casi, di 107.372 pazienti (di cui 521 indirizzati alla terapia con l’anticorpo monoclonale di riferimento), i soggetti in cura con il farmaco biotech risulterebbero essere quasi 10.900», illustra Carlo Lucioni, direttore di ricerca di HPS e autore dello studio. «La nostra analisi ha ipotizzato che il 5% dei pazienti già in cura con infliximab originator e il 50% dei nuovi pazienti eleggibili al trattamento con questo farmaco biologico impiegasse il biosimilare, che ha un costo inferiore del 25%. In tal modo, potremmo ottenere nei 12 mesi un risparmio potenziale di circa 3 milioni di euro, che consentirebbe di curare circa 260 pazienti in più. Prospettando nel periodo 2015-2019 una graduale crescita dell’utilizzo del biosimiliare (dal 5 al 25% dei pazienti già in terapia con infliximab originator e dal 50 al 90% dei nuovi pazienti candidabili), è stato calcolato un risparmio potenziale annuo nel 2019 pari a circa 16 milioni di euro e uno cumulato nei cinque anni di circa 48 milioni, con i quali si potrebbe estendere il trattamento a quasi 4.000 persone in più, per 12 mesi. Il risparmio per ogni paziente trattato col biosimilare può essere stimato pari a circa 4.000 euro all’anno».
La possibilità di allargare il numero di malati che accedono al biologico è cruciale, non solo perché queste terapie hanno modificato la storia naturale delle IMID, rallentandone la progressione, ma anche perché una quota non trascurabile di pazienti non risponde al trattamento di prima linea e potrebbe trarre beneficio da un impiego precoce dei medicinali biotech. Il problema dell’accesso è quindi sempre più dibattuto nelle diverse aree terapeutiche attinenti le malattie infiammatorie croniche, come la reumatologia, la gastroenterologia e la dermatologia.
Resistenze infondate all’uso dei biosimilari
Permangono, tuttavia, resistenze sull’utilizzo dei biosimilari, dovute al loro essere “simili ma non identici” all’originator, eppure sono farmaci sottoposti a uno stringente iter approvativo da parte dell’ EMA.
«Il biosimilare è sviluppato in modo da risultare sovrapponibile in termini di qualità, sicurezza, efficacia e immunogenicità», spiega Armando Genazzani, professore di Farmacologia, Università del Piemonte Orientale A. Avogadro durante il “Biosimilari. Prospettive future e strategie di gestione tra razionalizzazione della spesa e tutela dei pazienti”, organizzato a Bergamo da Health Publishing and Services (HPS), con il grant incondizionato di Mundipharma.
«Tra i principi attivi – continua Genazzani – possono esservi differenze minime, ma una certa variabilità strutturale è intrinseca ai complessi processi produttivi che impiegano cellule viventi: la si osserva anche tra lotti differenti di uno stesso originator. Un biosimilare viene approvato solo se tali variazioni non ne influenzano qualità, sicurezza ed efficacia. L’EMA richiede, infatti, un “esercizio di comparabilità”, per dimostrare la sovrapponibilità analitica (chimico-fisica e biologica), pre-clinica (studi di farmacocinetica e farmacodinamica in vitro e in vivo) e clinica (studi sull’uomo) del biosimilare rispetto al medicinale di riferimento. Tale “esercizio” è richiesto anche ad aziende titolari di prodotti brand, in caso di modifiche nel proprio processo produttivo. L’iter di approvazione è molto rigoroso, nessun passo è automatico o privo di valutazione scientifica da parte delle Autorità regolatorie. Il biosimilare di infliximab, ad esempio, è stato sottoposto a 54 test e studi pre-clinici e a 2 studi clinici».
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