La prossima frontiera della diagnosi delle ulcere e di altri problemi gastrointestinali potrebbe chiamarsi “batteri-on-a-chip”: il prototipo di un nuovo dispositivo ingeribile, infatti, si basa sul ricorso a batteri ingegnerizzati che fungono come biosensori. La risposta alle condizioni da essi evidenziate nello stomaco o nel tratto gastrointestinale viene convertita in tempo quasi reale in segnali wireless da parte di una componente elettronica a potenza ultra-bassa. Lo studio ha testato la funzionalità del prototipo nel maiale in risposta alla presenza del gruppo eme nel sangue quale indice di un sanguinamento in corso (e quindi di ulcera) ed è stato recentemente publicato su Science.

Il dispositivo ingeribile batteri-on-a-chip ideato ad Harvard per la diagnosi in loco delle ulcere (credits: Lillie Paquette/MIT)

Bioluminescenza per identificare le ulcere

La proof-of-concept del nuovo device è stata focalizzata sull’ingegnerizzazione di un ceppo di E. coli per renderlo in grado di emettere un segnale di bioluminescenza nel momento in cui entra a contatto con l’eme. I batteri sono ospitati in un reservoir e protetti con una speciale membrana semi-permeabile che permette la diffusione delle piccole molecole all’interno della camera. Al di sotto di questa, un fototransistor misura la luce generata dall’interazione e manda l’informazione a un microprocessore, che dopo averla elaborata la invia a una app esterna (compatibile con il sistema Android). Il tutto con un consumo energetico di solo 13 microwatt. La capsula ha comunque dimensioni per il momento ancora non indifferenti (1,5 pollici di lunghezza, pari a circa 3,8 cm) e per un uso in umano è ancora necessaria un’ulteriore fase di miniaturizzazione. Attualmente, il dispositivo è alimentato con una batteria da 2,7 V, che dovrebbe assicurare un’autonomia di funzionamento di almeno un mese e mezzo, ma secondo gli autori in futuro potrebbe essere un’altra tecnologia di alimentazione da essi stessi precedentemente sviluppata e che prevede l’inserimento nel device di una cella voltaica alimentata dall’ambiente acido dello stomaco.

Le possibili applicazioni

L’individuazione del sanguinamento nello stomaco del maiale come elemento predittivo della presenza di un’ulcera potrebbe permettere di evitare ai pazienti le noiose indagini endoscopiche oggi necessarie per giungere ad una diagnosi certa. Oltre che la miniaturizzazione, per applicazioni più mirate resta però ancora da determinare l’effettiva sopravvivenza dei batteri che fungono da biosensore all’interno del tratto gastrointestinale.
Ma questa è solo la prima di molte possibili applicazioni del dispositivo delineate dagli autori, che pensano di sviluppare la capsula batteri-on-a-chip sia secondo un’ottica di singolo utilizzo che rispetto a tempi di permanenza nel tratto gastrointestinale anche di alcuni giorni o settimane.

Altre linee di ricerca, per il momento non ancora arrivate alla fase pre-clinica in vivo, riguardano la possibilità d’individuare la presenza di ioni tiosolfato come marcatori dell’infiammazione, ad esempio in pazienti affetti da malattia di Crohn, oppure la molecola AHL (N-acyl homoserine lactone) che è indice della presenza di infezioni gastrointestinali. Le possibilità sono pressoché infinite, e i ricercatori del MIT non escludono si possa anche giungere all’utilizzo di diversi ceppi batterici all’interno del dispositivo, che permetterebbe di effettuare diagnosi più complesse e multi-patologia: dai quattro pozzetti attuali, infatti, la tecnologia potrebbe arrivare a ospitarne anche 16 o 256, aprendo le porte a letture parallele di parametri diversi e a modalità di “high-throughput screening” in vivo.