Ci si aspettava una soft Brexit, al momento è invece davvero difficile prevedere come andrà a finire con la Brexit, dopo la decisione del premier britannico Theresa May di non procedere con la votazione da parte del Parlamento – inizialmente prevista per il 10 dicembre – dell’accordo d’uscita negoziato con la controparte europea. A questo ha fatto seguito una mozione di sfiducia verso la stessa premier May da parte dei parlamentari conservatori, dalla quale il primo ministro è uscita indenne (200 voti a suo favore contro 117) anche se un po’ ammaccata.

Il fatto di non poter essere oggetto di un nuovo voto di sfiducia prima di un anno, infatti, non la mette al riparo dalle forti critiche provenienti da un’ampia parte del suo stesso partito (si veda qui, ad esempio, cosa ne dice la BBC). Per non dire della promessa di non ricandidarsi alle prossime elezioni previste al più tardi per il 2022, necessaria per passare indenne alla prova della sfiducia, ma che la pone fin d’ora in posizione di debolezza sia all’interno del paese che nei confronti dei partner internazionali. Subito dopo la conferma del mandato, Theresa May è partita per Bruxelles per partecipare al vertice europeo e provare a dare nuova linfa a una seconda fase di negoziazione con leader europei. Secondo il Telegraph, però, la premier avrebbe avuto a disposizione solo dieci minuti di tempo per convincere i suoi interlocutori. Impresa tutt’altro che semplice, e che ha ottenuto come risposta un chiaro “no” da parte dei suoi interlocutori. Al momento, quindi, il campo è aperto a tutte le possibili soluzioni in vista del 29 marzo 2019, compresa una uscita senza accordo o la chiamata della popolazione britannica a un secondo referendum.

Una matassa difficile da sbrogliare

Del resto, era stato lo stesso presidente del Consiglio Europeo, Donal Tusk, a dire nei giorni scorsi che l’Europa avrebbe cercato di vedere cosa fosse possibile fare per “aiutare la ratifica da parte del Regno Unito” dell’accordo già raggiunto, chiudendo le porte a qualsiasi possibilità di nuovi negoziati. Il voto da parte del Parlamento britannico è ora atteso prima di Natale, ma visto l’evolversi caotico degli eventi degli ultimi giorni non si può escludere la possibilità di ulteriori colpi di scena.

Ufficialmente, la causa principale che ha bloccato il voto da parte del Parlamento di Sua Maestà è stata rappresentata dalla difficoltà di decidere il nuovo regime per la gestione della frontiera nord-irlandese, che secondo l’accordo approvato dal Consiglio europeo lo scorso 25 novembre, sarebbe oggetto di un regime provvisorio di backstop in attesa di nuovi negoziati. Ma la situazione è in realtà molto più complessa, basti ricordare che lo stesso giorno che il Parlamento britannico si sarebbe dovuto esprimere sull’accordo, con tempismo perfetto la Corte di Giustizia europea ha sentenziato che la Gran Bretagna potrebbe decidere in modo unilaterale di cancellare la Brexit, restando all’interno dell’Unione Europea come se nulla fosse successo negli ultimi due anni e mezzo e senza chiedere cosa ne pensino gli altri 27 paesi membri. L’unica condizione posta dagli alti giudici europei è che tale decisione sia frutto di un “processo democratico”: palla di nuovo in campo UK, a cui spetterebbe l’eventuale possibilità di scelta tra un nuovo referendum, elezioni o il voto parlamentare. Sentenza a cui Theresa May ha però prontamente replicato ribadendo l’intenzione di procedere all’uscita della Gran Bretagna il 29 marzo 2019, come previsto.

Cosa prevede l’ accordo approvato dal Consiglio europeo

L’accordo negoziale e la dichiarazione politica ad esso collegata approvati dal Consiglio europeo del 25 novembre scorsi delineano una situazione in cui, almeno per quanto riguarda il settore scientifico e dell’innovazione e il mondo del farmaco e della tutela della salute pubblica, non dovrebbe cambiare poi molto a seguito della Brexit. Lo status quo verrebbe infatti mantenuto, con le regole europee ancora pienamente in vigore, per tutta la fase transitoria che dovrebbe durare come minimo fino al 31 dicembre 2020 (ma potrebbe essere prolungata qualora le negoziazioni finali non si fossero ancora concluse per tale data).

La dichiarazione politica indica che le future relazioni tra il blocco europeo e la Gran Bretagna dovrebbero basarsi su una “ambiziosa, ampia, profonda e flessibile partnership”, che per quanto riguarda gli aspetti dell’innovazione e della ricerca scientifica dovrebbe “permettere al Regno Unito di partecipare ai programmi europei”. La dichiarazione prevede anche di esplorare la possibile partecipazione britannica allo European Research Infrastructure Consortiums (ERICs), nonché ad altre iniziative di cooperazione.
L’attuale accordo negoziale ha sostanzialmente accolto le preoccupazioni dell’industria farmaceutica, sia europea che britannica, per la salvaguardia delle forniture di medicinali sui due lati della Manica. La dichiarazione prevede infatti la possibilità di cooperazioni settoriali più ampie volte a salvaguardare le catene di fornitura “complesse e integrate esistenti tra le due parti. Il documento cita la possibilità che venga creata per questi settori una free-trade area che veda una profonda collaborazione a livello sia regolatorio che doganale, senza applicazione di tariffe o altre tipologie d’imposte che limitino il movimento dei beni tra le rispettive frontiere.
La dichiarazione politica prevede anche chiaramente che siano sviluppati “principi comuni” per quanto riguarda gli standard, la normativa, la valutazione della conformità, l’accreditamento, la sorveglianza del mercato, la metrologia e l’etichettatura in quei campi disciplinari che presentano barriere tecniche al commercio (TBT) o misure sanitarie o fitosanitarie (SPS).

Altrettanto chiara è la previsione di una possibile, stretta collaborazione tra l’Agenzia europea dei medicinali (Ema), l’Agenzia europea per le sostanze chimiche (Echa) e le rispettive controparti sul suolo britannico, che secondo le indicazioni del documento, dovrebbero allinearsi alla normativa europea. Nulla, quindi, dovrebbe cambiare per quanto riguarda le regole sui prodotti medicinali qualora il Parlamento inglese approvasse l’accordo negoziale; diversamente, in caso di no deal exit tali regole verrebbero a cadere e il Regno Unito tornerebbe ad applicare la normativa nazionale.

L’industria del farmaco europea sostiene l’accordo d’uscita

Un’esito, quest’ultimo, che potrebbe avere ripercussioni drammatiche per le forniture dei prodotti medicinali sui due lati della Manica. Non a caso, infatti, tutte le organizzazioni industriali del settore farmaceutico, sia a livello UE che in UK, sostengono con forza la via dell’approvazione dell’accordo da parte del Parlamento britannico.

La Federazione europea dell’industra farmaceutica (Efpia) aveva da tempo sollecitato un impegno esplicito ad una cooperazione estesa e di lungo termine sulla normativa per i prodotti medicinali e le tecnologie medicali. Dopo lo stop al voto posto da Theresa May, Efpia ha ribadito tale posizione, sottolineando come “un’uscita disordinata dall’Unione Europea avrebbe conseguenze tangibili e reali per i pazienti e la salute pubblica sia in UK che in Europa”. Per la Federazione, il periodo di transizione attualmente previsto dall’accodo d’uscita sarebbe fondamentale per permettere alle aziende di adattarsi alle nuove richieste regolatorie e doganali sia a livello produttivo che della catena di fornitura, nonché per gestire le problematiche legate alla mobilità dello staff.
Efpia ha anche pubblicato un position paper che delinea il contingency plan di cui le aziende dovrebbero disporre nel caso si verifichi il deprecato no deal scenario. Tra le misure suggerite alla Commissione UE e agli Stati membri vi è l’introduzione di misure per il riconoscimento del testing dei farmaci effettuato in UK almeno fino al suo completo trasferimento sul territorio europeo e la possibilità per il Regno Unito di continuare a partecipare alle piattaforme di condivisione dei dati chiave per la protezione della salute pubblica e della sicurezza dei medicinali. Il position paper suggerisce anche di prevedere percorsi prioritari per gestire le spedizioni dei medicinali in porti e aeroporti, con esenzioni doganali provvisorie, ad esempio, per i prodotti destinati alla sperimentazione clinica. Per Efpia i controlli regolatori e documentali, inoltre, dovrebbero poter aver luogo anche al di fuori delle frontiere fisiche. La rappresentanza dell’industria farmaceutica europea ha suggerito anche di meglio valutare la possibile esenzione dai controlli doganali per quanto riguarda i principi attivi farmaceutici e le altre materie prime necessarie a garantire la continuità delle produzioni.

Supporto all’accordo anche dall’industria UK

Analoghe posizioni sono state espresse dopo lo stop al voto da parte del Parlamento UK anche dalle associazioni industriali britanniche. La Association of the British Pharmaceutical industry (Abpi) ha confermato il suo impegno a lavorare con il governo per affrontare al meglio uno scenario di uscita senza accordo, anche se quest’ultimo “potrebbe presentare sfide molto serie e andrebbe quindi evitato”. L’Associazione ha chiesto al governo inglese di chiarire come intenda gestire le priorità dei flussi di medicinali e vaccini in caso di no deal exit, ventilando la possibilità di ritardi alle frontiere che potrebbero arrivare ai sei mesi. “La creazione di stock di medicinali non è la soluzione a questo problema”, secondo il chief executive di Abpi, Mike Thompson, che ha richiesto al governo vie alternative di fornitura tra Europa e Regno Unito.
L’Associazione ha invece accolto positivamente la ratifica dell’accordo negoziale da parte del Consiglio europeo, sottolineando come una stretta collaborazione sul piano scientifico e normativo sia fondamentale per garantire la competitività europea sugli scenari globali.Senza di ciò, gli Stati Uniti e la Cina continuerebbero ad attrarre la quota maggiore dei nuovi investimenti nelle life sciences”, ha sottolineato Mike Thompson.

Anche la BioIndustry Association (BIA) ha richiesto al governo azioni aggiuntive al governo che vadano oltre lo stoccaggio previsto per sei settimane, ed ha sottolineato come ci si aspettino difficoltà di accesso per almeno sei mesi ai principali porti sui due lati della Manica, Dover e Calais. Una no deal Brexit rappresenterebbe per Steve Bates, Ceo di BIA, la più forte spinta disgregativa al mercato complesso e regolato dei medicinali in Europa. “A nome dei pazienti, incoraggiamo tutti i partecipanti ad essere il più possibile pronti per uno scenario che l’industria davvero non desidera – ha commentato Bates .- Non ci dovremmo illudere che ciò sia facile e agevole, e oggi la sfida di garantire la fornitura dei farmaci nel Regno Unito nel 2019 a fronte di una no deal Brexit si è fatta più difficile, non più semplice”.