«La scienza non può essere democratica», dice Roberto Burioni, ovvero, ribadisce Piero Angela: «La velocità della luce non si decide per alzata di mano». Il che sta più o meno a significare: ognuno, con onestà intellettuale, può – e deve – parlare di ciò che ha studiato e conosce profondamente, che può argomentare e sostenere basandosi sui dati.
Ora, fare divulgazione scientifica è faccenda alquanto complessa, che richiede doti non comuni e rappresenta uno dei crucci di molti ricercatori.
C’è chi su questo ci perde il sonno. Maria Pia Abbracchio – docente di Farmacologia e prorettore dell’Università statale di Milano – sosteneva sulle pagine della nostra rivista: «Noi scienziati dobbiamo fare una forte autocritica. Nei decenni passati abbiamo parecchio mancato. Il ricercatore era un topo di laboratorio interessato solo ai suoi esperimenti: lavorava sodo, con grande passione, ma senza preoccuparsi di comunicare quello che stava facendo, invece questa è un’esigenza che si sente sempre di più anche all’interno del mondo scientifico. Molto spesso la mancanza di conoscenza solleva le più grandi paure, per questo lo scienziato deve essere trasparente, corretto e pronto a eliminare alla base tutti i timori attraverso la spiegazione del proprio lavoro».

L’importanza di una corretta “traduzione”

Insomma, per raccontarsi e farsi capire è indispensabile un vero e proprio sforzo di traduzione linguistica che consenta di rendere accessibile al pubblico la cultura scientifica, senza tradirne la rigorosità.
Ben venga dunque, in quest’ottica, la decisione di Giulia Grillo di voler migliorare la comunicazione del suo dicastero, nominando un esperto in grado di far comprendere ai cittadini scelte che riguardano la loro salute e che incidono profondamente sulla loro stessa vita.
Peccato che Claudio Belotti, il “mental coach” selezionato all’uopo dal ministro, e di cui non mi permetterei mai di mettere in discussione le capacità di coach e di comunicatore, per sua stessa ammissione, non abbia alcuna competenza in materia di medicina. In un’intervista rilasciata a Elvira Serra per il Corriere della Sera, Belotti sostiene che questo sia un vantaggio: «Cerco di trasformare le cose – afferma – per capirle io anzitutto, e poi le capirà anche la signora Maria». Fatto sta che, interrogato su cosa sia il payback farmaceutico che, tra le altre cose, è chiamato a semplificare, candidamente risponde: «Non lo so, non lo hanno spiegato nemmeno a me, ancora».
A questo punto mi sorge un dubbio: l’esperto vanta un curriculum di tutto rispetto, che annovera collaborazioni con il Gruppo Armani, l’Inter, Bulgari e Google, ma divulgare la scienza e in particolar modo la medicina, la ricerca farmacologica, le delicate questioni di politica sanitaria e tutto ciò che concerne la salute sarà davvero paragonabile? Perché un lavoro di traduzione non è uno scherzo e presuppone la conoscenza di entrambe le lingue implicate. E se una delle due è la medicina o la farmacia, temo che il loro studio comporti quantomeno qualche annetto di impegno sui libri.

Il pericoloso rischio della banalizzazione

Al di là degli slogan, in un sistema in cui l’accesso allo studio sia universalmente garantito, la scienza è quanto di più democratico esista, nel senso che tutti sono messi nelle condizioni di poter acquisire la conoscenza. Ma ciò non significa che tutti siano autorizzati a dire la loro su argomenti che non conoscono a fondo. Una simile comunicazione significherebbe semplificare e banalizzare la scienza, non divulgarla, il che non è esattamente la medesima cosa e potrebbe nascondere pericolose insidie.