È uno degli slogan del FridaysForFuture. 123 i Paesi del mondo coinvolti, oltre 2000 le città dove si è manifestato, l’Italia – con i suoi 235 raduni – la nazione più attiva: il 15 marzo migliaia di giovani, in ogni parte del Globo, sono scesi in piazza per protestare contro l’inerzia dei governi dinnanzi al cambiamento del clima.

Politici, ascoltate gli scienziati!

Il resto è colore, la sterile polemica di chi guarda il dito e non la luna, e che rivolge l’attenzione a Greta, “l’attivista del clima con l’Asperger”, come lei stessa si definisce, innesco accidentale di un movimento globale che richiede a gran voce ai politici di ascoltare gli scienziati, andando oltre gli interessi economici che governano il sistema. Perché 11 sono gli anni che ci restano prima di arrivare al collasso. Perlomeno stando ai dati del rapporto pubblicato lo scorso ottobre da Ipcc (Intergovernmental panel on climate change), il più importante organismo scientifico intergovernativo dedicato alla ricerca sui cambiamenti climatici, che fissa il 2030 come l’anno in cui – con gli attuali ritmi di emissioni – l’innalzamento medio globale della temperatura supererà gli 1,5 °C, soglia del non ritorno del riscaldamento globale.

E se l’opinione è espressa da 91 luminari, provenienti da 40 Paesi e si basa su una mole di dati senza precedenti, su studi di migliaia di scienziati di tutto il mondo e il contributo di altrettanti esperti e autorità governative, forse sarebbe il caso di prenderla in considerazione, senza se e senza ma. Anche se questo richiede investimenti enormi, stimati in qualcosa come una spesa annua pari al 2,5% dell’intero Pil mondiale per almeno 20 anni e la volontà congiunta di tutti i governi.

Peccato che gli allarmi lanciati dalla comunità scientifica non riscuotano grande audience presso i politici, le cui agende, basate sul periodo medio-breve dei cicli elettorali, poco si confanno ai ritmi lenti, ma inesorabili, della più grande crisi ambientale che stiamo vivendo, e che tutto proceda come se nulla fosse. Almeno sino al 15 marzo, quando i giovani hanno deciso di rivendicare il loro futuro.

La risposta delle aziende

E le aziende? Business è solo business o qualcosa si sta muovendo in termini di promozione di uno sviluppo sostenibile? L’industria chimica e le imprese di Federchimica aderenti a Responsible Care – vuoi per affermare la propria reputazione, vuoi perché consapevoli della limitatezza delle risorse, vuoi perché sensibili all’impellenza del problema, poco importa agli effetti del risultato – da anni si stanno impegnando nella riduzione degli impatti ambientali di processi e prodotti chimici, anche attraverso l’utilizzo efficiente, sostenibile e circolare delle risorse. I dati del rapporto 2018 mostrano importanti risultati in termini di riduzione costante di emissioni specifiche, ottenuti attraverso l’ottimizzazione dei processi e l’uso delle migliori tecnologie disponibili. E sebbene ulteriori miglioramenti siano sempre più difficili da raggiungere, l’industria chimica dichiara di raccoglie la sfida, continuando a investire sempre più in processi e prodotti che riducano l’impatto ambientale lungo l’intero ciclo di vita del prodotto, con l’obiettivo di preservare il pianeta per le future generazioni.

Basta che tutti noi facciamo la nostra parte, e in fretta, perché ricordiamoci che 11 anni sono davvero pochi e il futuro è nelle nostre mani o, per dirla con i giovani, “non esiste un pianeta B”.