Sono state presentate le Raccomandazioni sull’Oncofertilità firmate da oncologi, endocrinologi e ginecologi di AIOM, SIE e SIGO e la richiesta di costituzione di una Rete nazionale dei centri di oncofertilità per garantire l’accesso alle tecniche migliori finalizzate a preservare la fertilità.

fertilità
Con l’obiettivo di preservare la fertilità dei pazienti oncologici nascono le Raccomandazioni sull’Oncofertilità

In Italia il cancro colpisce almeno 30 cittadini under 40 al giorno, pari a circa il 3% del numero totale delle nuove diagnosi.

I più comuni tipi di cancro nei giovani sono rappresentati nell’uomo dal tumore del testicolo, del colon-retto, della tiroide, dal melanoma e dal linfoma non Hodgkin, mentre nella donna dal carcinoma mammario, della tiroide, della cervice uterina, del colon-retto e dal melanoma.

Meno del 10% delle donne con diagnosi di tumore accede a una delle tecniche di preservazione della fertilità. Il numero è soltanto leggermente superiore fra gli uomini.

Negli ultimi anni la possibile comparsa di sterilità o infertilità secondaria ai trattamenti antitumorali e l’impatto psicologico sui pazienti hanno acquisito importanza crescente soprattutto alla luce di due fattori molti importanti:

  • lo spostamento in avanti dell’età della prima gravidanza, che comporta il fatto che molti pazienti non siano ancora genitori al momento della diagnosi
  • il miglioramento della prognosi nei pazienti oncologici di età pediatrica e giovanile che ha determinato la costituzione di una vasta popolazione di giovani “ survivors” oncologici, ancora in età per programmare una paternità o maternità.

Nel nostro Paese vi sono 319 Oncologie e 178 i centri di Procreazione Medicalmente Assistita che applicano la fecondazione in vitro e la crioconservazione dei gameti. La comunicazione tra queste strutture è auspicata nelle Raccomandazioni sull’Oncofertilità. Qui è contenuta, infatti, la richiesta di costituzione della Rete nazionale dei centri di oncofertilità con l’obiettivo di consentire ai pazienti di rivolgersi a strutture pubbliche specializzate e organizzate che facciano fronte a tutte le loro esigenze.

Si richiede l’istituzione di una struttura di riferimento in ciascuna Regione e l’esecuzione della consulenza specialistica entro 48 ore dalla diagnosi.

Le Raccomandazioni sono firmate dall’Associazione Italiana di Oncologia Medica (AIOM), dalla Società Italiana di Endocrinologia (SIE) e dalla Società Italiana di Ginecologia e Ostetrica (SIGO).

«Il desiderio di diventare genitori dopo la malattia è stato per troppo tempo sottovalutato – spiega Paolo Scollo, presidente SIGO -. Questo documento, indirizzato alle Istituzioni, riassume i principi chiave da seguire per un cambiamento sostanziale. In ogni Regione dovrebbe essere istituito almeno un Centro di riferimento in cui operino team multidisciplinari composti da ginecologi, senologi, andrologi, biologi e psicologi collegati in rete con i centri oncologici ed ematologici che abbiano esperienza nella gestione di pazienti in età fertile. Bastano poche strutture specializzate distribuite su tutto il territorio nazionale cui devono fare riferimento altri centri connessi, in modo da realizzare un sistema efficiente ed efficace, senza spreco di risorse e con un’immediata attivazione e potenziamento delle strutture riconosciute idonee e già operanti in Italia. In questo modo potranno essere applicati i più aggiornati e validati strumenti diagnostici, terapeutici, laboratoristici e chirurgici così da garantire ai malati un percorso di cura appropriato e uniforme in tutta Italia».

«Per i cittadini – afferma Carmine Pinto, presidente nazionale AIOM – la Rete costituirà un grande vantaggio perché, dal momento in cui al paziente viene diagnosticata una neoplasia, l’oncologo sarà in grado di metterlo direttamente in contatto con il centro pubblico di riferimento per procedere, dopo adeguato counselling, alla crioconservazione dei gameti prima dell’inizio delle terapie, bypassando tutte le liste di attesa. La consulenza specialistica dovrà infatti avvenire entro 24-48 ore. Diversamente da quanto accade nell’uomo, nella donna l’utilizzo di alcune di queste tecniche è associato a un ritardo nell’inizio dei trattamenti antineoplastici: da qui l’importanza di avviare quanto prima le pazienti agli esperti in questo campo. Questo sicuramente è un ambito che necessita di un’implementazione della sanità pubblica».

«Chiediamo al Ministro della Salute – continua Andrea Lenzi, presidente SIE – di attivare un confronto con le società scientifiche per programmare il numero, le dimensioni, la distribuzione territoriale e i volumi minimi di attività per la definizione di un Centro. Uno dei nostri obiettivi è anche migliorare fra i clinici la cultura della preservazione della fertilità dopo il cancro».

Nelle giovani sottoposte a trattamenti antitumorali, sono due le preoccupazioni principali nei confronti di una gravidanza, talvolta condivise anche dai medici: da un lato i possibili effetti nocivi delle terapie sullo sviluppo del bambino, dall’altro le conseguenze della gestazione sulla donna in termini di ripresa della malattia, in particolare in caso di neoplasie ormono-sensibili come quelle del seno.

«Riguardo al primo punto – sottolinea Paolo Scollo – i dati disponibili non dimostrano un aumento del rischio di difetti genetici o di altro tipo nei bambini nati da donne precedentemente sottoposte a terapie antineoplastiche. Per quanto riguarda il secondo aspetto, oggi è noto che le pazienti che hanno avuto un figlio dopo la diagnosi di tumore mammario non hanno una prognosi peggiore rispetto alle altre. Al contrario, i risultati di uno studio, condotto su 1.244 donne, segnalerebbero addirittura un effetto protettivo della gestazione, con una significativa riduzione del rischio di morte. Va quindi ritenuta definitivamente caduta la storica controindicazione alla gravidanza nelle pazienti con pregresso carcinoma mammario. Nonostante non sussistano reali controindicazioni, la quota di coloro che hanno almeno un figlio dopo la diagnosi di carcinoma mammario è tuttora molto bassa: solo il 3% tra le donne di età inferiore a 45 anni e l’8% se si considerano le under 35».

Anche per i giovani pazienti di sesso maschile, in assenza di una sindrome neoplastica ereditaria, non esiste alcuna evidenza scientifica che una precedente storia di cancro aumenti il tasso di anormalità congenite o di tumori nella loro prole.

«È importante – conclude Lenzi – che tutte le persone con diagnosi di tumore in età riproduttiva vengano adeguatamente informate della possibile riduzione della fertilità in seguito ai trattamenti antitumorali e, al tempo stesso, delle strategie oggi disponibili per limitare questo rischio. Le Raccomandazioni indicano tutti gli sforzi che dovrebbero essere messi in atto per aumentare lo scambio di informazioni fra i clinici per puntare non solo alla guarigione dei malati, ma anche al mantenimento dei loro obiettivi futuri, compresi quelli di una progettualità familiare».

Tra le iniziative volte a preservare la fertilità nei pazienti oncologici va segnalata anche la decisione della Commissione consultiva tecnico-scientifica (CTS) dell’AIFA che, a seguito delle richieste di SIE e SIGO nei mesi scorsi, ha espresso parere favorevole all’inserimento nella lista 648, che comprende i farmaci a carico del SSN per patologie prive di valida alternativa terapeutica, degli analoghi dell’ormone di rilascio delle gonadotropine (LH-RH) e delle gonadotropine utilizzati per la preservazione della funzionalità ovarica nelle donne in pre-menopausa affette da tumore che devono sottoporsi a chemioterapia, trattamento quest’ultimo che potrebbe provocare menopausa precoce e permanente, e per le quali altre opzioni terapeutiche più consolidate di preservazione della fertilità (crioconservazione di ovociti o di tessuto ovarico) sono da considerarsi alternative o aggiuntive.

L’impatto dei trattamenti antitumorali sulla fertilità

I trattamenti antiblastici quali chemioterapia e radioterapia, in particolare quelli che danneggiano il DNA, riducono drasticamente, nella donna, il numero degli ovociti primordiali, diminuendo la cosiddetta riserva ovarica e aumentando il rischio d’infertilità e menopausa precoce, mentre nell’uomo possono interferire in momenti più o meno precoci della cascata spermatogenetica con conseguente alterazione dei parametri seminali fino all’azoospermia (in entrambi i sessi, il maggior rischio di perdita della funzione riproduttiva è associato agli agenti alchilanti come carboplatino e cis platino e per quanto riguarda la radioterapia è sufficiente una dose compresa tra 5 e 20 Gy sull’ovaio per causare una disfunzione gonadica, indipendentemente dall’età della paziente. Alla dose di 30 Gy il rischio di menopausa precoce si aggira intorno al 60% nelle donne di età inferiore a 26 anni).

Non si conoscono ancora gli effetti sulla fertilità dei nuovi farmaci, che rappresentano una fetta importante dell’attuale armamentario terapeutico oncologico. Non è nota, per esempio, la potenziale tossicità gonadica dei nuovi antiangiogenetici, compresi gli anticorpi monoclonali e le piccole molecole.

In entrambi i sessi, il maggior rischio di perdita della funzione riproduttiva è associato agli agenti alchilanti, cosi come altrettanto noto è l’effetto negativo di carboplatino e cisplatino. Al contrario, un basso rischio è associato a metotrexate, fluorouracile, vincristina, vinblastina, bleomicina e dactinomicina. I dati relativi al rischio da taxani non sono ancora definitivi.

Fattori che compromettono la fertilità femminile

Sia la chemioterapia sia la radioterapia possono compromettere o interrompere la funzionalità ovarica attraverso la riduzione del numero di follicoli determinando arresto dello sviluppo e sterilità nella bambina, perdita della fertilità nella donna adulta e menopausa precoce. La fertilità può essere compromessa da qualsiasi trattamento che riduca il numero dei follicoli primordiali, colpisca l’equilibrio ormonale o interferisca con il funzionamento delle ovaie, delle tube, dell’utero o della cervice.

Il concepimento naturale e il successo della gravidanza possono essere impediti anche da cambiamenti anatomici o della vascolarizzazione a carico delle strutture genitali a seguito di interventi da chirurgia e/o radioterapia, anche in presenza di funzione ovarica conservata. La riduzione della riserva ovarica può tradursi in minori possibilità di concepimento e in maggior rischio di menopausa precoce anche se l’attività mestruale ciclica permane dopo i trattamenti antitumorali.

Gli analoghi LH-RH determinano una soppressione ovarica per definizione transitoria. Tuttavia la reversibilità dipende fortemente dall’età della paziente: la ripresa del flusso mestruale è attesa nel 90% delle pazienti di età inferiore a 40, rispetto al 70% delle pazienti di età superiore.

  • Chemioterapia: le pazienti con età superiore a 35-40 anni sono maggiormente suscettibili agli effetti dei farmaci chemioterapici sulla fertilità: le ovaie di pazienti più giovani, infatti, possono sopportare dosi maggiori di farmaci citotossici. I dati delle casistiche internazionali dimostrano che l’amenorrea si verifica in una percentuale compresa tra il 20 e il 70% dei casi per donne con età inferiore a 40 anni e nel 50-100% dei casi per donne con età maggiore. L’amenorrea permanente è correlata all’età al momento del trattamento e compare, in genere, durante la chemioterapia o dopo un periodo variabile di oligoamenorrea. La ripresa del ciclo mestruale dopo la sospensione della terapia con i vari farmaci chemioterapici non sempre si accompagna ad una contestuale ripresa dell’ovulazione e dunque ad un recupero della fertilità.
  • Radioterapia: una dose compresa tra 5 e 20 Gy (unità di misura dell’assorbimento di radiazioni) sull’ovaio è sufficiente per causare una permanente disfunzione gonadica, indipendentemente dall’età della paziente. Alla dose di 30 Gy il rischio di menopausa precoce è del 60% nelle donne con età inferiore a 26 anni. Oltre i 40 anni, laddove la conta follicolare ovarica è fisiologicamente inferiore, sono sufficienti dosi di 5 o 6 Gy per provocare un danno permanente. La total body irradiation (TBI), in corso di condizionamento pre-trapianto di cellule staminali, è associata a una disfunzione gonadica permanente in più del 90% delle donne trattate, con una incidenza di gravidanza post-trattamento inferiore al 3%. L’esposizione a radioterapia può influenzare negativamente anche lo sviluppo uterino cui può seguire un maggior rischio di aborto spontaneo o un ritardo di crescita intrauterina del feto durante la gravidanza.

Fattori che compromettono la fertilità maschile

Per quanto riguarda l’uomo, alcuni studi hanno evidenziato una preesistente ridotta qualità del seme in pazienti con leucemia, linfoma, e tumore del testicolo. In seguito al trattamento del tumore maligno alcuni pazienti vanno incontro ad un miglioramento dei parametri seminali. I possibili fattori che contribuiscono all’infertilità indotta dalla neoplasia sono rappresentati dallo stato infiammatorio sistemico, dall’aumentata risposta immune, dal rilascio di citochine da parte del tumore, dallo stato febbrile e dai danni di molteplici sistemi risultanti dallo stato di malattia cronica e di malnutrizione.

  • Chirurgia: il trattamento chirurgico del tumore testicolare è una potenziale causa di perdita della fertilità. L’orchiectomia (asportazione di un testicolo) rappresenta il trattamento del tumore a cellule germinali testicolare e può essere occasionalmente utilizzata come trattamento di altre neoplasie maligne come il tumore della prostata. La perdita di un solo testicolo non comporta necessariamente infertilità: tra pazienti affetti da tumore testicolare sottoposti a questa procedura è stato riscontrato un tasso di paternità del 65%. La chirurgia può comunque alterare la capacità di concepire naturalmente mediante l’eiaculazione a causa del danno dei meccanismi neurologici dell’eiaculazione. Interventi chirurgici utilizzati nel trattamento dei tumori (come l’asportazione dei linfonodi retroperitoneali, prostatectomia, interventi di chirurgia pelvica) possono danneggiare i vasi deferenti, i dotti eiaculatori, le vescicole seminali o i nervi dei corpi cavernosi con conseguente disfunzione erettile, danno dei nervi autonomi e successiva disfunzione eiaculatoria e interruzione fisica o ostruzione al passaggio del liquido seminale.
  • Chemioterapia: gli agenti chemioterapici hanno una vasta gamma di impatto sulla fertilità maschile. Gli effetti della chemioterapia sono indipendenti dall’età, con anomalie cromosomiche rilevate negli spermatociti fino a 24 mesi dopo la fine del trattamento. Gli agenti alchilanti hanno il più alto rischio di provocare un danno sulla spermatogenesi; altri agenti gonadotossici sono gli agenti a base di platino, gli alcaloidi della vinca e gli inibitori delle topo-isomerasi e provocano alterazioni della spermatogenesi in modo dose dipendente. Quasi un terzo dei soggetti maschi che sopravvive ad un cancro in età adolescenziale diventa azoospermico e un quinto oligozoospermico dopo chemioterapia.
  • Radioterapia: quando il testicolo viene esposto a radiazioni, la conta spermatica comincia a ridursi in misura proporzionale al dosaggio ricevuto, con conseguente sterilità temporanea (al di sotto dei 6 Gy) o permanente (per dosi superiori). Con le moderne tecniche di irradiazione conformazionale su sede lombo-aortica, con dosi < 30 Gy e appropriata schermatura testicolare, l’infertilità radioindotta è un’evenienza rara nei pazienti sottoposti a radioterapia profilattica per seminoma. La conta spermatica è più bassa a 4-6 mesi, per poi tornare tipicamente ai livelli pretrattamento in 10-24 mesi; solo il 3-6% rimane azospermico a 2 anni.

Tecniche di preservazione della fertilità

Le principali tecniche di preservazione della fertilità attualmente esistenti in Italia per i giovani pazienti che devono sottoporsi a trattamenti antineoplastici sono rappresentate

  • nella donna da crioconservazione degli ovociti, crioconservazione di tessuto ovarico, soppressione gonadica con analogo LH-RH , trasposizione ovarica e terapia chirurgica conservativa,
  • nell’uomo dalla crioconservazione del seme o del tessuto testicolare.

Il materiale biologico può rimanere crioconservato per anni ed essere utilizzato quando il paziente ha superato la malattia.

La conservazione della fertilità maschile

La crioconservazione del seme o del tessuto testicolare rappresenta una tecnica che permette di conservare i gameti maschili per un tempo indefinito a – 196°C e, al giorno d’oggi, rappresenta uno strumento per i pazienti che si sottopongono a trattamenti medici o chirurgici potenzialmente in grado di indurre sterilità e per i pazienti affetti da azoospermia secretoria o escretoria che possono accedere alle tecniche di fecondazione assistita.

È possibile crioconservare le seguenti matrici biologiche:

  • liquido seminale
  • spermatozoi (prelevati mediante aspirazione testicolare o epidimaria)
  • frammenti di parenchima testicolare.

Il paziente che crioconserva il proprio seme deve essere sottoposto ad uno screening infettivologico al fine di evitare la potenziale dispersione di microorganismi nel contenitore di crioconservazione ed il potenziale inquinamento degli altri campioni seminali in esso contenuti. La crioconservazione del liquido seminale, come per tutte le cellule e tessuti di origine umana ad uso clinico, può effettuarsi solamente in presenza di indicazioni mediche.

È fortemente raccomandato che il prelievo del seme venga effettuato prima dell’inizio delle terapie antitumorali in quanto la qualità del campione e l’integrità del DNA degli spermatozoi possono essere compromessi anche dopo un solo ciclo di trattamento. Nei pazienti oncologici che hanno utilizzato gli spermatozoi crioconservati prima del trattamento, i tassi di successo variano dal 20 al 50% per ciclo.

La crioconservazione del seme è diventata una tappa fondamentale nella gestione dei pazienti neoplastici che si sottopongono a terapie potenzialmente in grado di indurre sterilità. I pazienti oncologici in età fertile trovano nella crioconservazione del seme non solo la speranza di una fertilità futura ma anche un sostegno psicologico per affrontare le varie fasi dei protocolli terapeutici. I progressi nella terapia anti-neoplastica e le sempre più sofisticate tecniche di fecondazione assistita hanno aperto nuove possibilità riproduttive per il maschio infertile e, quindi, la crioconservazione del seme si impone anche nei casi di liquidi seminali gravemente alterati che non avrebbero avuto nessuna possibilità di fecondare in epoca pre-ICSI (iniezione intracitoplasmatica di spermatozoi).

È, pertanto, imperativo informare il paziente neoplastico di questa possibilità in caso di terapie che possano ledere in modo irreversibile la capacità fecondante ed è altrettanto imperativo eseguire la crioconservazione prima dell’inizio di qualsiasi terapia che possa interferire con la spermatogenesi e con l’integrità del genoma.

La conservazione della fertilità femminile

Le principali tecniche di preservazione della fertilità attualmente esistenti in Italia per le giovani pazienti che devono sottoporsi a trattamenti antitumorali sono rappresentate da:

  • Criopreservazione degli ovociti: la tecnica è indicata in pazienti che hanno la possibilità di rinviare il trattamento chemioterapico di 2 settimane e che hanno una riserva ovarica adeguata per il recupero di un numero sufficiente di ovociti. La durata della stimolazione può arrivare a 15 giorni, durante tale periodo la paziente dovrà sottoporsi a ecografie trans-vaginali e dosaggi seriati di 17-beta estradiolo per stabilire il momento opportuno per indurre l’ovulazione e programmare il prelievo eco-guidato degli ovociti. Nei protocolli standard, l’induzione della crescita follicolare multipla inizia nei primi giorni della fase follicolare ed è quindi necessario attendere la comparsa del ciclo mestruale, cosa che in alcuni casi può ulteriormente ritardare l’inizio della chemioterapia. Per le pazienti oncologiche, sono stati quindi proposti dei protocolli che prevedono l’inizio della stimolazione in qualsiasi giorno del ciclo mestruale in cui si trovi la paziente al momento della decisione di intraprendere una preservazione della fertilità con congelamento ovocitario. Per donne con tumori ormonoresponsivi come per le pazienti affette da carcinoma della mammella e dell’endometrio sono stati sviluppati approcci alternativi di stimolazione ormonale che utilizzano tamoxifene/letrozolo, così da ridurre il rischio potenziale di esposizione ad elevate concentrazioni di estrogeni.
  • Criopreservazione di tessuto ovarico: si tratta di una tecnica ancora sperimentale che ha il vantaggio di non richiedere una stimolazione ormonale e offre prospettive per preservare sia la funzione riproduttiva sia quella ormonale. È indicata in donne con età inferiore a 38 anni con riserva ovarica adeguata. Il successo di questa tecnica in pazienti con età superiore è incerto per il ridotto numero di follicoli primordiali residui. Controindicazioni assolute sono patologie ad elevato rischio di metastasi ovariche (leucemie, tumori ovarici, tumori solidi metastatici al peritoneo) ed elevato rischio chirurgico. Può essere effettuata in qualsiasi momento del ciclo mestruale e permette quindi di evitare il ritardo nell’inizio del trattamento chemioterapico. La corticale dell’ovaio contenente gli ovociti viene conservata in azoto liquido per poi poter essere reimpiantata nella donna dopo la fine dei trattamenti oncologici permettendole una ripresa sia della funzione ormonale che riproduttiva. Il tessuto ovarico destinato alla crioconservazione viene prelevato nel corso di un intervento di laparoscopia, trasportato in mezzi di coltura in laboratorio e quindi tagliato in strisce di pochi millimetri di dimensioni, criopreservate e conservate in contenitori di azoto liquido a – 196°C fino allo scongelamento e successivo reimpianto nella paziente alla completa remissione della malattia neoplastica.
  • Soppressione gonadica con analogo LH-RH: la somministrazione di analoghi LH-RH durante la chemioterapia, riducendo la secrezione di FSH (ormone follicolo-stimolante), sopprime la funzione ovarica e potrebbe quindi ridurre l’effetto tossico della chemioterapia. Questa tecnica può essere eseguita contestualmente alla chemioterapia evitando rinvii sull’inizio della terapia oncologica sebbene comporti un temporaneo rialzo dei livelli ematici di estrogeni nella fase successiva alla prima somministrazione. L’utilizzo degli LH-RH analoghi può essere dunque indicato per le pazienti di età inferiore a 45 anni desiderose di preservare la funzione ovarica. La soppressione ovarica con LH-RH analoghi durante la chemioterapia e le strategie di criopreservazione non sono tecniche mutualmente esclusive e possono essere usate insieme per aumentare la possibilità di preservare la funzione ovarica e la fertilità in giovani donne con malattia neoplastica candidate a ricevere chemioterapia.
  • Trasposizione ovarica: questa tecnica consiste nello spostare chirurgicamente le ovaie lontano dal campo di irradiazione, durante il trattamento chirurgico della neoplasia.  I principali tumori che richiedono la trasposizione ovarica sono il tumore della cervice e del retto, pertanto nella maggior parte dei casi le ovaie devono esser spostate lateralmente e in alto. Le ovaie vengono in genere fissate nelle fosse paracoliche con sutura non riassorbibile e clip metalliche per consentire la loro identificazione da parte del radioterapista. Il tasso di successo della ovariopessi, valutato come preservazione della funzione mestruale, arriva al 70%. Il fallimento di questa tecnica dipende dall’età della paziente (non è indicato eseguirla nelle over 40), dalla possibile dispersione di radiazioni al tessuto gonadico e dalla possibile alterazione della perfusione ovarica. Il riposizionamento delle ovaie al termine del trattamento non è sempre necessario.
  • Terapia chirurgica conservativa: nei tumori ginecologici è proponibile in casi in cui è possibile eseguire una accurata e completa stadiazione soprattutto in pazienti in età riproduttiva desiderose di concepimento, molto motivate e disponibili a uno stretto follow-up in centri oncologici con esperienza e protocolli di follow-up adeguati.