Cavour ammoniva che le riforme vanno fatte un attimo prima che i cittadini ne avvertano l’esigenza. Se è ormai tardi applicare questa massima del piemontese in molti campi del vivere sociale, magari siamo ancora in tempo per il farmaceutico. Infatti i sanguinosi tagli inferti al settore non hanno inciso sull’assistenza, quindi sui cittadini, ma sono stati “incassati”, pugilisticamente parlando, dalla filiera.

Negli scorsi mesi, le diverse e ripetute misure “salva Italia”, “cresci Italia”, “spending review” e vattelappesca varie hanno tagliato la spesa farmaceutica, con diverse modalità dirette e indirette, record di provvedimenti nazionali e regionali negli ultimi dieci anni. Prezzi abbassati “ope legis”, ma sotto una certa soglia prezzi e ricavi non possono andare, pena l’antieconomicità di restare sul mercato. Vale per tutta la filiera, imprese, grossisti e farmacie (un numero sempre maggiore delle quali sempre più in grave sofferenza).

Le imprese del farmaco hanno tagliato i costi, ridotto o azzerato gli investimenti, licenziato migliaia e migliaia di addetti, raschiato il fondo del barile. Così, è ormai evidente, non possono continuare, è antieconomico. Già ora, figuriamoci in futuro. Che fare?

Qualche soluzione possibile. Una può essere rendere più efficiente il mercato agli attuali valori riducendo le imprese operanti con gli stessi prodotti (comarketing) aumentando così le market share delle rimanenti, che recupererebbero ricavi e profitti e di conseguenza tornerebbero ad accrescere i rispettivi livelli d’investimento. Ma così ti saluto imprese italiane, oggi beneficiarie del comarketing.

Altra soluzione potrebbe consistere nel ridurre il prontuario concentrando le attuali risorse sui farmaci “più importanti” e ad alto costo (oncologici, innovativi ecc.) spesso oggi di critico accesso e sostenibilità proprio per la (sedicente) scarsità di risorse delle regioni. Già, ma come ridurre il prontuario? Ad esempio spostando certi farmaci di largo consumo, antipertensivi, diabetologici, statine, tanto per citarne i principali, che da soli assorbono un terzo della spesa territoriale, direttamente a pagamento del paziente, almeno per quelli da un certo reddito in su. Stiamo parlando di cifre pari a 0,5-1 euro al giorno per paziente, non un salasso, ma capaci di generare qualche miliardo di euro di risparmi da indirizzare a quei farmaci innovativi ad alto costo.

Altrimenti, ulteriore soluzione, introdurre una compartecipazione alla spesa proporzionale al prezzo del farmaco, magari con percentuali a scalare, come avviene nella maggior parte dei Paesi EU, dove il paziente si fa carico di parte del prezzo del farmaco, il 20%, il 30%, il 40% o oltre, a seconda del tipo (salvavita o no) e del prezzo del medicinale.

In questa ipotesi e nella precedente, tale spesa privata può essere detraibile dalle tasse, o più o meno strutturata in fondi mutualistici o assicurativi integrativi, cioè essere dotata di un volano che ne ammorbidisca l’impatto sul singolo. Così, però, addio equità nell’accesso.

Insomma, qualche soluzione va trovata per questa situazione progressivamente restrittiva non più sostenibile dalla filiera.

In verità i quattrini ci sarebbero pure, e neanche pochi: basterebbe fossero spesi dalle regioni un po’ meglio: migliore efficienza nella programmazione e gestione di ospedali e servizi, ovvero più professionalità e competenza nei dirigenti. Meno corruzione e malaffare. Meno familismo. E meno ostriche e champagne, bonifici privati in Svizzera o vacanze extralusso in yacht e resort caraibici da sogno da parte di chi, quelle nostre risorse, le amministra come se fossero roba sua. Insomma i soldi ci sono. È che vengono spesi male. Altro che Cavour. Viene in mente De Gaulle. Quando diceva che l’Italia non è un paese povero. È un povero paese!

Fabrizio Gianfrate