«Le prove di efficacia dell’omeopatia ci sono, il problema è che l’omeopatia continua ad essere boicottata». È la risposta di Elio Rossi, responsabile dell’ambulatorio di Omeopatia Asl2 di Lucca e direttore scientifico della rivista Medicina Naturale, alle critiche ancora una volta rivolte alla dolce medicina. Acqua bollente, altro che “acqua fresca”!

Omeoatici, "acqua bollente, altro che acqua fresca!" Elio Rossi risponde alle critiche all'omeopatia sollevate da Silvio Garattini nel libro "Acqua fresca"
Omeoatici, “acqua bollente, altro che acqua fresca!” Elio Rossi risponde alle critiche all’omeopatia sollevate da Silvio Garattini nel libro “Acqua fresca”

Questa volta la sferzata è tutta italiana e porta la firma di Silvio Garattini che insieme a diversi ricercatori dell’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negrio di Milano ha pubblicato il libro “Acqua fresca? Tutto quello che bisogna sapere sull’omeopatia”.

Uno degli aspetti più criticati riguarda gli studi clinici, che, secondo il farmacologo, sarebbero in generale pochi, mal condotti, con disegni sperimentali non sempre validi per la comunità scientifica e pubblicati solo su riviste di settore e per questo benevole nei confronti dell’omeopatia. Ma vediamo cosa ne pensano gli omeopati.

Non ci sono fondi né strutture pubbliche dove fare gli studi clinici

«Il numero degli studi clinici e preclinici in omeopatia è sicuramente inferiore rispetto a quelli condotti con la medicina tradizionale – afferma Elio Rossi. – Ma non potrebbe essere diversamente.

L’omeopatia non ha né i fondi né le strutture pubbliche, ospedali e Università, di cui si può invece avvalere la medicina del farmaco allopatico. In Italia non esistono strutture pubbliche in cui sia consentito utilizzare l’omeopatia, se escludiamo quelle poche eccezioni di cui fa parte la Regione Toscana.

In altri Paesi le condizioni sono più previlegiate, ma sempre molto contenute. Direi quindi che a fronte delle risorse a nostra disposizione, le pubblicazioni che riguardano l’omeopatia, in aumento nell’ultimo decennio, dimostrano il forte impegno degli operatori a documentare le proprie esperienze e i risultati delle proprie ricerche. I risultati dei trials sono nella maggior parte dei casi a favore dell’omeopatia».

Ostacolo da comitato etico

A proposito del disegno degli studi clinici Garattini solleva la questione del confronto con placebo. Nella maggior parte dei casi i trial sarebbero disegnati per valutare la non inferiorità del rimedio omeopatico rispetto al trattamento allopatico. Secondo il farmacologo questa strategia avrebbe vantaggi immediati: “se è molto difficile e costoso dimostrare la superiorità di una nuova terapia rispetto a una efficace già in uso, le evidenze di non inferiorità consentono comunque la messa in commercio del prodotto”.

Su questo punto Rossi chiarisce spiegando che gli studi di non inferiorità derivano dal fatto che i rimedi omeopatici non vengono mai proposti in sostituzione a un farmaco allopatico, ma in aggiunta «Nessun comitato etico, non solo in Italia, approverebbe la sostituzione di un farmaco con un rimedio omeopatico. È già difficile far approvare da un comitato etico uno studio di non inferiorità. Per alcuni questo ostacolo è insormontabile…ecco un altro motivo per cui si fanno pochi studi clinici».

Il bias è in negativo, altro che favoriti nella pubblicazione!

Un’altra critica riguarda il fatto che gli studi clinici in omeopatia sono tutti pubblicati su riviste dedicate alle medicine complementari e quindi già favorevolmente predisposte verso queste discipline.

«Il bias c’è, ma in negativo! Le riviste su cui pubblichiamo sono tutte indicizzate e non hanno alcun pregiudizio favorevole verso l’omeopatia. Sono di settore, ma non abbiamo scelta – dichiara Rossi. –

Da tempo infatti le riviste che si occupano di medicina tradizionale si rifiutano di pubblicare qualunque tipo studio che riguarda l’omeopatia, indipendentemente dalla sua qualità metodologica. Qualche tempo fa, anche Luc Montagnier, Premio Nobel per la medicina nel 2008, è riuscito a pubblicare la sua ricerca sulle proprietà del DNA di indurre onde elettromagnetiche in diluizioni acquose solamente su una rivista secondaria!».

Evidenze? Ci sono, ma se non le vuoi vedere…

Il dubbio principale sull’omeopatia riguarda il meccanismo d’azione. Gli scettici si chiedono se sia davvero possibile che un principio attivo diluito a concentrazioni molecolari possa esprimere la sua attività. Il titolo del libro “Acqua fresca” non lascia dubbi sulla loro posizione.

«Il farmaco omeopatico in diluizione non solo è attivo, ma in alcuni casi è addirittura potenziato».

A supporto Rossi, limitandosi ai risultati della ricerca italiana, porta l’esempio delle sperimentazioni di Paolo Bellavite (Università di Verona), che hanno dimostrato per Gelsemium sempervirens in diluizione omeopatica un’attività in grado di modificare il genoma di linee cellulari abitualmente utilizzate in medicina convenzionale. Alcuni autori indiani, tra i quali Banerji e Frenkel hanno dimostrato presso il prestigioso National Cancer Instute USA l’attività antitumorale di medicinali quali Conium maculatum, Phytolacca decandram Thuja occidentalis, favorendo l’apoptosi delle cellule cancerose di tumore della mammella. Anche lo stesso studio di Montagnier ha dimostrato che alcune sequenze di DNA possono indurre segnali elettromagnetici di bassa frequenza in soluzioni acquose altamente diluite, che mantengono poi “memoria” delle caratteristiche del DNA stesso. «Le prove non mancano, piuttosto, non c’è volontà a prenderle in considerazione».

Rigore metodologico

Un altro punto critico riguarda il rigore metodologico degli studi. Garattini specifica nel libro che “gli indicatori di outcome scelti negli studi in omeopatia consistono in variabili soggettive e difficilmente quantificabili (sensazione di benessere, percezione di energia interiore, generico miglioramento funzionale) o fortemente correlabili con la personalità/abilità del terapeuta”.

«Per valutare l’efficacia di un rimedio omeopatico utilizziamo gli stessi indicatori del farmaco allopatico; bisogna però tener conto del contesto – spiega Rossi. –

Nella maggior parte dei casi e soprattutto nelle malatti più gravi e croniche, il farmaco omeopatico viene utilizzato in supporto alla medicina tradizionale per migliorarne gli effetti collaterali o alleviarne alcuni sintomi, e non per risolvere la malattia. Gli indicatori di efficacia quindi non saranno la “guarigione” ma piuttosto il miglioramento della qualità della vita o la stabilizzazione di alcuni parametri ematochimici, che valutiamo con gli stessi indicatori e strumenti ritenuti validi nella medicina tradizionale.

Ai nostri studi viene messo in dubbio il rigore metodologico, eppure nessuno ha sollevato critiche sul metodo di analisi utilizzato dal National Health and Medical Research Council (NHMRC) per valutare gli studi clinici, che ha portato a giudicare l’omeopatia non efficace in nessuna condizione clinica (per approfondire leggi l’articolo “Report Australiano boccia l’omeopatia“). In molti casi il metodo prevedeva la valutazione complessiva di una strategia terapeutica e pertanto per una stessa patologia sono stati considerati lavori che avevano utilizzato trattamenti omeopatici diversi, con principi attivi diversi. Alcuni di questi sono risultati efficaci ed altri no, ma questi hanno inficiato, anche statisticamente, il risultato positivo dei precedenti e sono stati utilizzati per trarre conclusioni negative sull’omeopatia in generale.»

Nel caso ad esempio della diarrea infantile, ha poi puntualizzato l’Australian Health Association, ci si è avvalsi di uno studio che aveva dimostrato la non superiorità rispetto al placebo del medicinale compositio Arsenicum, Calcarea carbonica, Chamomilla, Podophyllum e Sulphur 30 Ch per dichiarare che l’omeopatia non è efficace nel trattamento di questa patologia. Sarebbe invece corretto affermare che questo composito non è efficace nella diarrea, mentre il trattamento omeopatico individualizzato consente di ridurre in modo significativo la durata della sintomatologia come dimostrato dalla metanalisi di J.Jacobs. «Se questa strategia venisse applicata alla medicina convenzionale, per esempio per valutare l’efficacia di un antibiotico in un’infezione batterica, in caso di risultato negativo si dovrebbe concludere che il trattamento antibiotico è in generale inefficace nelle infezioni batteriche, il che è ovviamente falso», sottolinea Rossi e conclude

«Le condizioni in cui operiamo non sono le stesse della medicina convenzionale e non si può pretendere di usare gli stessi criteri di giudizio quando i punti di partenza sono sostanzialmente diversi».