Mettere davvero il paziente al centro delle sperimentazioni cliniche significa cogliere l’importanza dell’atto che il paziente stesso fa nel mettersi a disposizione per quest’attività così delicata, che va a beneficio della sua stessa vita oltre che di quella della più estesa comunità di chi è affetto da una certa malattia. L’Agenzia italiana del farmaco ha sottolineato con una nota pubblicata sul suo sito l’importanza che i pazienti che decidono di aderire agli studi clinici non vengano considerati “una risorsa dell’azienda farmaceutica“. Gli stessi studi clinici non dovrebbero essere visti unicamente alla stregua di “un banco di prova per testare un nuovo farmaco“. La nota di Aifa riprende i contenuti di un articolo a firma di Gail McIntyre – chief scientific officer della biotech Aravive – recentemente pubblicato su StatNews.

Una visione critica della sperimentazione sull’uomo

L’articolo riprende e commenta quanto espresso dal direttore dell’Oncology Center of Excellence dell’FDA, Richard Pazdur, che nel corso di una tavola rotonda aveva espresso dubbi circa l’opportunità per l’industria di continuare a testare sull’uomo un certo approccio terapeutico che si sia già mostrato inefficace.

L’esempio portato dal rappresentante di FDA è stato quello dei prodotti anti PD-1 o PD-L1 destinanti al trattamento del mieloma multiplo e che agiscono come inibitori del checkpoint, per i quali tre recenti studi non avrebbero portato evidenze positive. Anzi, scrive Aifa, tutti e tre hanno mostrato una riduzione della sopravvivenza globale: un esito che ha portato Pazdur a chiedersi e a chiedere perché replicare lo stesso tipo di studio se esso va a danno dei pazienti che accettano di parteciparvi.

Non servono altri farmaci mee-too

Ma le critiche non finiscono qui. La richiesta per le aziende è di puntare allo sviluppo di nuovi medicinali per i quali sia davvero possibile dimostrare, sulla base di evidenze concrete, il potenziale beneficio livello terapeutico e di miglioramento della qualità della vita dei pazienti. Meno farmaci “mee-too”, quindi, i cui benefici sono spesso ottenibili con medicinali già presenti sul mercato. Il riferimento è, ad esempio, ai sei inibitori del checkpoint già in commercio, che secondo Pazdur pur essendo in grado di modificare il decorso della malattia per alcuni pazienti, si sarebbero dimostrati inefficaci per la maggior parte delle persone che li assumono. Un problema a cui si aggiungono anche i frequenti e seri effetti collaterali associati a questo tipo di prodotto. Nonostante questi dati poco confortanti, le stime del Cancer Research Institute, indicano in 2250 gli studi clinici in corso su agenti PD-1 o PD-L1, quasi ottocento più rispetto a un anno fa.

“Platform trials” per ripensare lo sviluppo clinico

Servirebbe ripensare i modelli di sviluppo clinico, è il suggerimento di Pazdur ripreso da Aifa, ad esempio andando sempre più verso i cosiddetti “platform trials“, ovvero quegli studi basati su un unico protocollo principale (master protocol) e nel corso dei quali si valutano allo stesso tempo  più trattamenti farmacologici. A ciò si dovrebbe aggiungere una maggiore propensione delle aziende farmaceutiche alla collaborazione e alla condivisione dei dati.

Un altro suggerimento avanzato da Gail McIntyre è di portare allo stadio clinico dello sviluppo solo quei prodotti per i quali sia disponibile un solido razionale a sostegno della loro potenziale efficacia, basato su una profonda comprensione della biologia della malattia e restando all’interno di profili di tossicità accettabili. Un obiettivo da perseguire attraverso maggiori investimenti nella comprensione della biologia precoce dei tumori, negli studi pre-clinici e di fase clinica precoce, onde identificare i biomarcatori in grado d’indicare al meglio la possibile efficacia del farmaco e i pazienti potenziali rispondenti.