I nuovi approcci al ciclo di vita del farmaco, dal suo sviluppo ed approvazione fino alla somministrazione finale, conferiscono al paziente un ruolo sempre più centrale al fine di coglierne al meglio i bisogni, che viene di solito indicato col termine patient advocacy. Molto importante in quest’ottica è l’attitudine con cui i pazienti e le loro associazioni rappresentative si pongono nei confronti dell’industria farmaceutica. Attitudine che è stata indagata da uno studio qualitativo pubblicato sul British Medical Journal (BMJ) a dicembre 2019; la ricerca ha coinvolto 27 partecipanti appartenenti a gruppi australiani di pazienti rappresentativi di diversi livelli d’interazione con l’industria farmaceutica e, seppur molto limitato per dimensioni, getta una luce di solito poco considerata e ancora tutta da approfondire, sui possibili conflitti d’interesse che si potrebbero così venire a creare. “Vi è evidenza di un’associazione tra il ricevimento di denaro da parte dell’industria farmaceutica e una posizione pro-industria in tema di politiche sanitarie“, si legge infatti nell’articolo.
Assett exchange in crescita
Molte delle associazioni di pazienti intervistate hanno stabilito con l’industria una forma di “assett exhange” che vede l’erogazione di contributi in denaro, informazioni o consigli ai pazienti a fronte di varie possibilità di interagire con l’azienda (dal marketing al networking con key opinion leader, da un’attività coordinata di lobbying per l’accesso e il rimborso dei farmaci all’assistenza nel reclutamento dei pazienti per gli studi clinici e alla partecipazione ad attività di sostegno della credibilità dell’azienda). I ricercatori australiani citano numerosi esempi del crescente interesse delle aziende a questo tipo di “sponsorizzazione”; uno studio britannico, ad esempio, ha mostrato che i finanziamenti dell’industria ai pazienti sono aumentati dagli 8,2 milioni di sterline del 2012 ai 20,9 milioni del 2016, con un parallelo aumento delle aziende interessate da 30 a 45. “I gruppi di pazienti che ricevono soldi dall’industria farmaceutica dovrebbero aspettarsi che gli venga richiesto in cambio un qualche assett specifico“, scrivono i ricercatori delle università di Sidney e Toronto che hanno firmato l’articolo su Bmj.
La tipologia predominante d’interazione che è risultata dalle interviste (15 segnalazioni da 13 gruppi) è quella di una partnership di business “di successo”, anche se non priva per i pazienti di potenziali influenze da parte dell’industria a cui le associazioni devono prestare attenzione. Per alcuni rappresentanti dei gruppi di pazienti, inoltre, le relazioni con l’industria sono non soddisfacenti (3 segnalazioni da 3 gruppi) o non adeguatamente sviluppate (5 segnalazioni da cinque gruppi), e in alcuni casi del tutto incompatibili a causa degli interessi divergenti (4 segnalazioni da 3 gruppi).
L’impatto etico dell’interazione
L’indagine è stata condotta secondo i principi della cosiddetta “etica empirica“, che coniuga l’evidenza empirica con le teorie etiche per valutare l’impatto di determinati comportamenti e giungere a raccomandazioni per il futuro.
Il motivo più frequente di contatto tra le due realtà è la disponibilità di nuovi farmaci di potenziale interesse per i pazienti, prima che questi giungano ad autorizzazione regolatoria. E se “non c’era nessun gruppo rilevante di pazienti, allora le aziende con nuovi prodotti per il mercato avrebbero potuto finanziarne la fondazione di uno“. Alcuni di questi nuovi gruppi così fondati avrebbero anche visto un travaso di personale dall’azienda al gruppo stesso, riporta l’articolo. Le associazioni dei pazienti sono libere di rifiutare le proposte dell’industria, ma secondo gli autori avrebbero molto meno spazio a disposizione per sollecitare esse stesse un supporto da parte delle aziende alle loro attività.
L’esito complessivo di queste dinamiche delineato dai ricercatori australiani vedrebbe una possibile attenzione selettiva di molte associazioni di pazienti verso i problemi che stanno più a cuore all’industria. “Questo focus potrebbe significare un’ineguaglianza nella consapevolezza della malattia e nel supporto al paziente, a favore di condizioni di salute che possono essere oggetto di trattamento farmaceutico“, denuncia l’articolo. Anche i trattamenti non farmacologici o di prevenzione potrebbero così finire in secondo piano.