Prendersi cure del paziente non significa solo offrire le migliore cure, ma anche costruire uno spazio di dialogo tra curante e malato, che aiuti il paziente a vivere in prima persona la propria malattia, con tutto quello che vi ruota attorno. La maggiore consapevolezza e responsabilità del paziente può contribuire non solo a migliorare l’efficacia delle terapie ma anche ridurre il rischio di eventi avversi associati ad errori terapeutici. A questo serve l’educazione terapeutica del paziente, definita appunto dall’OMS come un percorso per “aiutare la persona malata e la sua famiglia a comprendere la malattia e il trattamento, a collaborare alle cure, a farsi carico del proprio stato di salute, a conservare e migliorare la propria qualità di vita”.  

«In concreto – spiega Renzo Marcolongo (Azienda Ospedaliera, Università di Padova), intervenuto a Barcellona al convegno dell’Associazione Europea Farmacisti Ospedalieri (EAHP) – significa che i curanti oltre a istruire, e non semplicemente informare, accuratamente i malati, devono preoccuparsi di controllare che cosa essi abbiano effettivamente appreso e con quali conseguenze sulla malattia e cura, coinvolgendoli nelle decisioni terapeutiche e dando il tempo per riflettere, capire, assentire o anche dissentire. A differenza dell’educazione sanitaria, l’educazione terapeutica rappresenta perciò un atto più complesso perché oltre alla prevenzione è finalizzato alla cura. E in questo percorso sono coinvolti non sono i medici, ma tutto il personale sanitario, compresi i farmacisti ospedalieri che svolgono un ruolo fondamentale soprattutto oggi che le terapie farmacologiche sono complesse».