L’iperparatiroidismo secondario (SHPT) è una complicanza comune della malattia renale cronica (CKD). Il progressivo declino della funzionalità renale, infatti, porta all’alterazione del metabolismo di calcio (Ca), fosforo (P) e vitamina D.
Il conseguente sviluppo di ipocalcemia determina un incremento della sintesi di ormone paratiroideo (PTH), ormone prodotto dalle ghiandole paratiroidi, che è il principale regolatore dei livelli circolanti di calcio.
La secrezione persistentemente elevata del paratormone, determina l’aumento della calcemia a discapito della densità minerale ossea e con una conseguente deposizione di calcio a livello vascolare.
L’iperparatiroidismo secondario da insufficienza renale è una malattia tendenzialmente asintomatica. Presenta, infatti, soltanto i segni tipici dell’alterazione del metabolismo minerale, con particolare evidenza delle fratture da fragilità ossea.
Le conseguenze cliniche dell’SHPT sono particolarmente significative e includono:
- un rischio di fratture di 3-4 volte più alto rispetto alla popolazione generale,
- un maggior rischio di ospedalizzazione,
- calcificazioni vascolari per effetto del disordine sistemico del metabolismo minerale. Esse aumentano il rischio di eventi cardiovascolari e, quindi, il tasso di mortalità.
Francesco Locatelli, direttore emerito del dipartimento Nefrologia, Dialisi e Trapianto Renale all’Ospedale A. Manzoni di Lecco spiega:
«In Italia, i pazienti in dialisi sono circa 50.000 e almeno la metà di chi inizia un percorso di dialisi soffre di iperparatiroidismo secondario, condizione che progredisce con il passare del tempo in dialisi e spesso anche dopo il trapianto. L’eccessiva produzione di paratormone è responsabile delle cosiddette calcificazioni metastatiche, il depositarsi di sali di calcio nelle arterie e nei tessuti molli, anche nei parenchimi nobili, come cuore e polmoni, con la conseguente compromissione della funzione di questi organi vitali. Inoltre, le calcificazioni vascolari aumentano la rigidità delle pareti dei vasi e, associate alle calcificazioni delle valvole cardiache, sono la principale causa dell’aumentata mortalità cardiovascolare di questi pazienti».
«La diagnosi si esegue dosando calcemia, fosforemia, fosfatasi alcalina e soprattutto il paratormone nel sangue. In caso di livelli elevati di paratormone possono aggiungersi esami strumentali, come un’ecografia per valutare sede e volume delle paratiroidi. Bisogna prestare grande attenzione non soltanto al valore assoluto dei livelli di paratormone, ma soprattutto alla loro variazione nel tempo. Una certa elevazione dei livelli di paratormone è da considerarsi fisiologica per il paziente con insufficienza renale. Valori di paratormone inferiori a 300 pg/mL non devono destare preoccupazione. Un progressivo aumento dei valori rende necessario un tempestivo intervento farmacologico perché in caso di mancata risposta alla terapia, si deve ricorre al trattamento chirurgico di rimozione delle ghiandole paratiroidee».
«Bisogna quindi monitorare attentamente le situazioni in evoluzione e cercare di impedire che si raggiungano livelli molto elevati, oltre i quali la condizione potrebbe diventare “autonoma”, non più controllabile e risolvibile unicamente con il ricorso all’intervento chirurgico di paratiroidectomia» – aggiunge Francesco Locatelli.
Le linee guida KDIGO (Kidney Disease Improving Global Outcomes) raccomandano:
- il mantenimento dei livelli di PTH nei pazienti in dialisi in un range compreso dalle 2 alle 9 volte il limite superiore normale di PTH,
- un attento monitoraggio dell’andamento dei valori sia del PTH sia di Ca e P.
Questo per permettere di valutare un intervento farmacologico e, in caso di mancata risposta alle terapie, un trattamento chirurgico di rimozione delle ghiandole paratiroidi.
Gli interventi mirano alla prevenzione delle conseguenze cliniche dell’iperparatiroidismo secondario sull’osso e sul sistema cardiovascolare.
«Nei pazienti con insufficienza renale cronica in dialisi, la prevenzione della patologia da eccesso di produzione di paratormone deve iniziare già dai primi stadi della malattia renale per impedirne la progressione e prevenirne le complicanze – continua Francesco Locatelli. –Particolarmente importanti sono le raccomandazioni dietetiche volte a garantire un’alimentazione dal contenuto proteico limitato e il controllo dell’iperfosforemia».
«Quindi, il paziente sin dalle fasi iniziali della riduzione della funzione renale non dovrebbe eccedere con l’apporto di proteine e non superare la quantità raccomandata di 0,8 – 1 g/kg di peso corporeo ideale, come consigliato anche dall’organizzazione mondiale della sanità anche per la popolazione sana; dovrebbe, oltre alla nota necessità di controllare l’apporto di sale, prestare soprattutto attenzione all’introduzione di fosforo, di cui sono particolarmente ricche non solo carni, pesci e latticini, ma anche molte bevande “soft drinks” e i cibi conservati. Abolendo questi ultimi ed evitando l’apporto proteico non necessario si possono ottenere grandi risultati senza rilevanti sacrifici. Successivamente si valuterà la necessità di interventi farmacologici» – conclude Francesco Locatelli.
Trattamento farmacologico dell’iperparatiroidismo secondario
Gli interventi farmacologici per l’iperparatiroidismo secondario mirano principalmente alla prevenzione delle sue conseguenze sull’apparato scheletrico e cardiovascolare. I trattamenti in uso più prescritti sono di tre tipi, spesso usati in associazione:
- chelanti del fosforo: attenuano l’assorbimento intestinale del fosforo,
- vitamina D: gli attivatori del recettore della vitamina D (VDRAs) incrementano l’assorbimento del calcio e del fosforo e riducono quindi la sintesi di PTH,
- calciomimetici: riducono i livelli di paratormone e anche i livelli di calcio e fosforo. Agiscono infatti sul recettore sensibile al calcio che ne regola la secrezione da parte delle paratiroidi.
Uno dei limiti di queste terapie è sicuramente la scarsa aderenza. Rispetto a tutti gli altri pazienti cronici, quelli con malattia renale assumono un numero superiore di terapie orali. Il numero di pillole per queste persone può raggiungere le due decine al giorno. A causa della scarsa aderenza alle terapie, soltanto il 15-20% dei pazienti riesce a raggiungere contemporaneamente i livelli raccomandati di PTH, Ca e P.
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