Correlazione tra cancro e tromboembolismo venoso
Correlazione tra cancro e tromboembolismo venoso

Daiichi Sankyo Italia ha presentato il rapporto di MediPragma “Cancro e tromboembolismo venoso: il peso della convivenza sui pazienti”, una ricerca realizzata in Italia con interviste a pazienti oncologici in terapia eparinica per il tromboembolismo venoso. L’obiettivo dell’indagine era comprendere, attraverso testimonianze dirette, l’impatto di questa condizione di co-morbilità sulla vita quotidiana di chi ne è afflitto e le strategie di coping attuate per gestirla.

Correlazione tra cancro e tromboembolismo venoso
Correlazione tra cancro e tromboembolismo venoso: una condizione potenzialmente fatale e spesso sconosciuta

La correlazione tra cancro e TEV è seria, frequente e potenzialmente fatale, eppure spesso ignorata o sottovalutata dai pazienti stessi, che non sono sempre adeguatamente preparati dagli specialisti ad affrontarla. Questo è uno degli aspetti principali emersi dalla ricerca.

Il cancro è considerato un fattore di rischio cardiovascolare perché si associa ad una aumentata incidenza di eventi tromboembolici, infatti il TEV è una co-morbilità particolarmente frequente e ricorrente nel paziente con cancro. Studi su pazienti sopravvissuti al cancro hanno dimostrato che circa un terzo di essi muore per malattia cardiovascolare. Il TEV nei pazienti oncologici ha un’incidenza di sei volte superiore rispetto alla popolazione generale, e ne costituisce la seconda causa di morte dopo la neoplasia stessa. Di tutti i casi di TEV il 20% si verifica proprio nel paziente oncologico, e ciò dipende da vari fattori quali il tipo di tumore, lo stadio e l’estensione del cancro, l’età, l’immobilizzazione, la chirurgia e alcuni trattamenti chemioterapici [N.Maurea et al., Tromboembolismo venoso e fibrillazione atriale nel paziente oncologico, G Ital Cardiol 2018;19(9 Suppl 1):3S].

«La correlazione tra queste patologie è ormai al centro dell’attività assistenziale e di ricerca dell’ematologia italiana, soprattutto da quando le nuove terapie hanno cronicizzato la maggior parte delle neoplasie ematologiche prima incurabili, rendendo particolarmente importante il ruolo delle alterazioni coagulative, specialmente la trombosi venosa e l’embolia polmonare, legate alle neoplasie stesse o alla loro terapia» – spiega Sergio Siragusa, vice presidente S.I.E Società Italiana Ematologia, commentando gli ultimi dati di letteratura scientifica.

Il rischio è maggiore nei primi mesi fino a due anni dopo la diagnosi, e il rischio di recidiva persiste anche successivamente.

Inoltre, i pazienti oncologici in trattamento per TEV hanno sopravvivenza minore, prognosi peggiore e costi sanitari più elevati rispetto a coloro che non soffrono di eventi tromboembolici [D. Imberti et al.,Antithrombotic Therapy for Venous Thromboembolism in patients with cancer: expert guidance, Expert Opinion on Pharmacotherapy 2018, 19:11, 1177–1185].

Durante la chemioterapia il rischio di TEV è fino a 7 volte maggiore se paragonato ai pazienti senza cancro.

«Per tutte queste ragioni, la conoscenza da parte dei medici e dei pazienti delle problematiche legate al TEV è fondamentale – dichiara Antonio Russo, professore ordinario di Oncologia Medica presso l’Università degli studi di Palermo – dal momento che queste sono molto correlate con il processo neoplastico poiché ne impattano il management e la prognosi» .

Le linee guida ESMO sottolineano da diversi anni che il TEV ha importanti risvolti sia sulla prognosi dei pazienti oncologici sia sulla loro qualità di vita eppure, nonostante sia una complicanza a volte devastante e potenzialmente fatale, gli stessi oncologi spesso sottostimano i rischi derivanti dalla tossicità delle terapie anticancro e di riflesso molti pazienti non seguono cure adeguate.

A sottolineare la necessità di informare e sensibilizzare innanzitutto pazienti e caregiver e in secondo luogo istituzioni e operatori sanitari sui rischi di questa patologia correlata al cancro è Francesco De Lorenzo, presidente della Coalizione europea dei pazienti oncologici (ECPC) e presidente della Federazione italiana delle Associazioni di Volontariato in Oncologia (FAVO) il quale dichiara:

«Il rischio di trombosi correlato al cancro è pressoché ignorato non soltanto dai malati italiani, ma anche da quelli di numerosi Paesi europei e a dimostrarlo chiaramente sono i risultati di un sondaggio europeo condotto da ECPC sul livello di consapevolezza dei pazienti oncologici sui rischi della trombosi: il 72% dei pazienti intervistati ha rivelato di non essere consapevole di correre un maggiore rischio di TEV, e per il 28% di coloro che invece ne erano consapevoli, la conoscenza della patologia è avvenuta solo dopo averla sperimentata, ma il livello di comprensione delle implicazioni si è dimostrato comunque basso. Un altro dato rilevante riguarda le modalità con cui ne sono venuti a conoscenza, solo il 13% dei pazienti ha ricevuto informazioni in merito da medici ospedalieri e il 6% dai medici di base, mentre gli altri hanno fatto ricerche personali o si sono confrontati con parenti e amici».

La ricerca italiana MediPragma sulla consapevolezza della correlazione tra cancro e TEV

La scarsa consapevolezza della correlazione tra cancro e TEV emerge con evidenza dalla ricerca italiana MediPragma, che rileva come il peso del tromboembolismo venoso e della terapia eparinica giunga come inaspettato e imponderato per i pazienti oncologici, non preventivamente preparati dallo specialista di riferimento. Ne deriva una minimizzazione e banalizzazione della gravità del TEV rispetto al cancro, da parte sia del medico sia del paziente, che considerano la relativa terapia, rispetto alle preoccupazioni dettate dal cancro, come un fatto transitorio. Emergono inoltre le difficoltà della somministrazione quotidiana di eparina: una terapia percepita come invasiva, definita anche come “scolapasta” per via delle numerose iniezioni che causano ematomi addominali e dolore alla somministrazione per la quale, tra l’altro, è spesso richiesto l’aiuto di un caregiver.

Il conflitto tra le strategie di coping e sottovalutazione e la realtà della gestione della terapia, intaccano ulteriormente la tenuta psicologica e la voglia di combattere del paziente che è già di per sé un paziente fragile e ha dovuto affrontare un percorso a ostacoli: diagnosi di tumore, chemioterapia e/o radioterapia, diagnosi di TEV, inizio della terapia eparinica.

A ciò si aggiunge la perdita di autonomia del paziente che generalmente a seguito della trombosi e delle difficoltà di movimento, vede stravolta la sua routine quotidiana, non riesce più ad uscire da solo e trova difficile svolgere in modo indipendente anche banali attività come salire le scale.

Le interviste delineano dunque un impatto devastante sulla vita dei pazienti e dei loro familiari e caregiver, che ha un prezzo altissimo a livello psicologico, economico e sociale. L’insorgenza del TEV in pazienti con tumore può comportare, infatti, l’allontanamento dal lavoro e l’isolamento sociale, e un conseguente peso sui familiari, che da “attori secondari” con ruolo di sostegno psicologico e morale per il paziente oncologico, passano all’improvviso ad essere co-protagonisti nella gestione della terapia della trombosi. Il supporto richiesto diventa quindi fisico/pratico (somministrazione e/o promemoria del farmaco, aiuto nello svolgere le attività quotidiane etc).

Il paziente fatica ad accettare l’impossibilità di essere autosufficiente e l’allettamento seppur temporaneo causati del TEV, in quanto queste condizioni rappresentano una indiretta percezione di sconfitta nei confronti del tumore. Emerge dunque il bisogno insoddisfatto di coloro che sono affetti da TEV: un maggiore supporto da parte dei medici non soltanto nella preparazione di ciò che devono affrontare ma una vicinanza rassicurante e costante che risolva loro i dubbi sulla gestione pratica della terapia, come quelli relativi a sede, modalità e tempi di iniezioni dopo la comparsa degli ematomi.

«Siamo particolarmente orgogliosi di presentare questa ricerca, soprattutto per la metodologia con cui è stata condotta, ovvero ascoltando direttamente la voce dei pazienti, che corrisponde a quello che è da sempre l’impegno di Daiichi Sankyo. I pazienti non sono numeri o statistiche e noi continuiamo ad ascoltare i bisogni insoddisfatti di coloro che soffrono di patologie, co-morbilità e condizioni per vari motivi trascurate, e a lavorare per offrire loro una risposta – spiega Massimo Grandi amministratore delegato di Daiichi Sankyo Italia – E siamo felici di collaborare con le associazioni di pazienti come FAVO al raggiungimento di questo traguardo, che però non deve restare un obiettivo dei singoli, medici, aziende o associazioni che siano, ma deve diventare uno scopo comune, con l’attuazione di sinergie tra istituzioni, professionisti sanitari di varie aree mediche, e soprattutto con il coinvolgimento dei pazienti che devono restare al centro del nostro agire».