L’era dei dati ha segnato un cambio di passo nello sviluppo ed erogazione dei servizi per la salute, incluso lo sviluppo farmaceutico, grazie a una sempre crescente disponibilità di dati real-world in grado di contestualizzare, ad esempio, l’utilizzo di un farmaco nel contesto reale.

Un articolo publicato su Clinical Pharmacology & Therapeutics affronta il tema dell’accettabilità sul piano regolatorio di tali dati e dei metodi analitici non randomizzati (statistici, epidemiologici, ecc.) utilizzati per la loro elaborazione. Tra gli autori numerosi rappresentanti dell’Agenzia europea dei medicinali, fra cui il direttore generale Guido Rasi, il Senior medical officer, Hans-Georg Eichler, e i vertici del Comitato per i medicinali a uso umano (Chmp), Harald Enzmann e Bruno Sepodes, oltre ad accademici e all’agenzia regolatoria tedesca BfArM.

Mancano metodi statistici adeguati

La validazione dei dati clinici secondo l’approccio tradizionale si basa sulla rigorosa metodologia degli studi clinici randomizzati (Rct) – condotti su coorti molto selezionate di pazienti – a partire dai quali i metodi statistici estraggono, analizzano e interpretano i risultati sperimentali. Questi metodi non sono però adatti a trattare i dati ottenuti dagli studi real-world, in cui la sperimentazione si rivolge indistintamente a tutti i pazienti e potrebbe quindi comportare, ad esempio, anche la presenza di co-morbidità. È quindi necessario individuare nuovi metodi analitici, che risultino accettabili anche dal punto di vista degli enti regolatori al fine del processo decisionale.

Un obiettivo non così semplice da raggiungere, sottolinea l’articolo, in quanto questi nuovi metodi devono venire testati e validati prima di poter entrare nell’uso comune. Le possibili fonti di dati sono ormai le più varie, dalle cartelle cliniche elettroniche (eHR) alla condivisione dei dati degli studi randomizzati già conclusi e all’analisi cross-trial, fino alla combinazione dei dati real-world con quelli provenienti dalle eHR e dalle assicurazioni. E il futuro potrebbe ampliare ancora di più la platea delle fonti, fino a includere i dati ottenuti dagli smartdevice di cui ormai sono tutti dotati.

L’articolo individua però due grandi tipologie di ostacoli che impediscono di sfruttare pienamente questo tipo di dati: la preparazione tecnico-operativa e la governance dei dati stessi. Ostacoli a cui si aggiungono i molti bias che per alcuni osservatori caratterizzerebbero l’uso di dati non provenienti da studi clinici randomizzati.

Superare l’avversione

Gli autori dell’articolo ritengono che i trial randomizzati continueranno ad essere lo strumento standard per lo sviluppo dei nuovi prodotti; strumento che dovrebbe però poter essere affiancato in modo complementare da altri mezzi, soprattutto quando i disegni tradizionali degli studi risultino eticamente poco accettabili o non fattibili. Non mancano da parte degli autori anche i commenti critici verso chi accusa i regolatori di “avversione metodologica“: “Vediamo vari gradi di avversione metodologica in tutti i gruppi di stakeholder dell’ecosistema farmaceutico“, scrivono infatti gli esperti del mondo regolatorio.

Un piano pre-concordato di validazione

Il suggerimento avanzato dale pagine di Clin. Pharmacol. & Therap. è che i nuovi metodi analitici vengano validati proprio come si trattasse di un nuovo farmaco, “in modo prospettico e ben controllato, secondo un piano pre-concordato” attraverso il ricorso alla procedura di qualifica di Ema e con coinvolgimento attivo degli enti di health technology assessment, dei payer e delle associazioni dei pazienti. “Dal punto di vista dei regolatori europei, con partecipazione attiva dei gruppi di pazienti e di altri decisori è una piattaforma efficiente e trasparente per lo sviluppo e la validazione di nuovi disegni per gli studi“, si legge nell’articolo.

Vengono forniti anche numerosi esempi di metodologie che potrebbero cadere sotto questa nuova visione, dalla “presa in prestito” di dati da studi precedenti all’uso di gruppi di controllo esterno con incrocio delle soglie, dalla comparazione indiretta dell’efficacia relativa fino alla possibilità di sostituire del tutto gli studi randomizzati con il modello real-world (Rwd).

Secondo gli esperti, inoltre, tali piani prospettici di valutazione delle metodologie potrebbero essere condotti senza troppe difficoltà in parallelo allo sviluppo standard sia pre- che post-marketing, con allocazione di risorse considerate “non proibitive” se paragonate ai costi e ai tempi tipici per la generazione di dati tramite studi interventistici. L’articolo suggerisce anche che le attività volte a sviluppare questo nuovo modello possano venire almeno in parte finanziate dall’Unione Europea all’interno della IMI Initiative.

Un’opinione sull’accettabilità del metodo

Il nuovo percorso di validazione permetterebbe anche al comitato Chmp di Ema di emettere un’opinione sull’accettabilità di un certo metodo con riferimento a specifici quesiti scientifici. Particolarmente delicata, da questo punto di vista, è la possibilità di sostituire tout court gli studi clinici randomizzati con un’analisi di dati real-world, che permetterebbe alle aziende notevoli risparmi di tempi e costi. Tuttavia, sottolineano gli autori, “il track record degli studi comparativi non randomizzati non è convincente“, e non mancano i casi di esiti divergenti dei due tipi di sperimentazione sia a livello dell’entità dell’effetto osservato che della sua direzione. In questo senso, la valutazione prospettica e strutturata degli studi real-world permetterebbe anche di limitare il rischio di “aggiustamenti” dei risultati qualora siano già noti gli esiti di studi randomizzati. Non da ultimo, vanno anche registrate le possibili differenze tra blocchi geografici diversi, che renderebbero impossibile estrapolare direttamente, ad esempio, dati prodotti negli Usa verso l’Europa e viceversa.

La possibilità di costruire una nuova credibilità, sottolineano gli autori, parte da una forma mentis “agnostica”. Le aziende, sottolineano le conclusioni, non dovrebbero limitarsi a confronti con prodotti datati, ma dovrebbero testare le nuove metodiche anche su prodotti più sperimentali al fine di validarle a 360 gradi. Un altro requisito di cui tenere conto in questo esercizio sarebbe la necessità di un “firewall” tra la validazione del prodotto e quella del metodo, volto ad evitare qualsivoglia tipo di bias nei risultati.