Uno scambio di vedute informale, costruttivo, in cui gli eventi realmente accaduti durante il lavoro di tutti i giorni sono stati la base di partenza e lo spunto per entrare nel pratico, proporre suggerimenti, valutare criticità e tentare di trovare delle soluzioni condivise. Si è caratterizzato così l’evento “Preparare e gestire un audit”, organizzato dal GIF «Gruppo Ispezioni Fornitori» in collaborazione con AFI e Tecniche Nuove, con l’obiettivo di esaminare le difficoltà che si incontrano durante le ispezioni alle diverse tipologie di fornitori. A coordinare il comitato organizzatore Rita Brusa, membro del Direttivo GIF e coordinatrice del gruppo di studio AFI “Qualità e Fornitori”. 

Adriana Cotti, quality director & qualified person di IngenUs, ha introdotto la giornata di lavoro parlando di etica degli audit, cui hanno seguito nel corso dei lavori i suggerimenti di Giuliana Gabet, Gmp consultant, sulle modalità di comunicazione e un approfondimento sulle differenze tra gli standard Gmp e Iso di Armando Romaniello, direttore marketing, industry management e certificazione di prodotto presso Certiquality. A questi approfondimenti ha fatto seguito un doppio momento di scambio, con due tavole rotonde moderate da Fabio Stratta, direttore tecnico di Faravelli, membro del gruppo “Qualità e Fornitori” di AFI, in cui è stato chiesto ai vari rappresentanti della filiera di vestire i panni altrui, cercando di comprendere le reali criticità di chi è “dall’altra parte”.

Fabio Stratta

Come gestire eventuali richieste non applicabili al proprio settore?

All’interno del mondo della filiera del farmaco si trovano a dialogare mondi diversi, che non rispondono necessariamente agli stessi obblighi normativi e che non devono soddisfare i medesimi standard qualitativi. Eppure, molti degli intervistati hanno raccontato di ricevere in fase di audit richieste non applicabili al proprio settore. «Nella nostra realtà – spiega Maria Adele Imro, QA manager di AM Instruments, azienda che produce materiali per ambienti sterili – capita di continuo di ricevere audit da clienti delle aziende farmaceutiche, che quindi ragionano secondo standard full Gmp e spesso inviano in fase di audit agende frutto di un template della realtà farmaceutica. Nel caso di AM instruments, tuttavia, gli obblighi normativi Iso non si allineano completamente con quelli applicabili alle farmaceutiche e le richieste dell’agenda, quindi, in molti casi non sono pienamente calate nella realtà del nostro contesto».

Difficoltà del genere, all’interno della filiera, sono ben note anche a chi si trova al centro dei flussi, ad esempio lo spedizioniere. Come sottolinea Valentina Bardeglinuquality specialist di Schenker Italiana – «ci troviamo a far da ponte tra il mondo del farmaco e quello dei trasportatori e in particolare la figura dello spedizioniere soffre del fatto che le Gdp non delineano nello specifico i ruoli e le competenze. Questo porta di frequente in fase di audit con aziende del farmaco ad affrontare un divario di tipo culturale, con richieste normative che nel nostro contesto non sono applicabili». Come provare praticamente a superare questo ostacolo? Imro ha messo in pratica, nel tempo, una strategia che sottolinea i punti di forza: «Ricevuta l’agenda, la condivido nuovamente con l’auditor segnando in positivo tutte le richieste applicabili e fornendo la lista dei documenti a supporto, che preparo già in modo ordinato ed etichettato per il giorno dell’audit. Al contrario non contesto mai prima dell’audit i punti in agenda non supportabili, e mi riservo di parlarne direttamente a voce in sede di audit. A parti inverse, infatti, mi è capitato di ricevere “critiche” all’agenda proposta prima dell’ispezione e non l’ho gradito». La gestione delle richieste riportate in agenda, per quanto riguarda il parere di Bardeglinu, dipende invece molto dall’interlocutore. «Se il contatto iniziale che abbiamo è informale proviamo a dare informazioni aggiuntive sulla nostra realtà già telefonicamente prima dell’audit. Diversamente, se l’approccio iniziale è più formale, rispondiamo all’agenda inserendo “non applicabile” alle varie richieste, dandone opportuna motivazione». Anche secondo Marco Corbetta – QSA di Elis, realtà che si occupa lavaggio e sterilizzazione industriale di indumenti – è utile segnalare prima dell’audit in modo chiaro i punti che non possono essere soddisfatti. «Di solito noi rispondiamo già via mail a quali requisiti possiamo o non possiamo rispondere in fase di audit, per evitare che il giorno stesso dell’evento ci siano poi attese da parte dell’auditor di dati non fornibili». In ogni caso è condivisa da tutti l’idea che in fase di audit è opportuno iniziare l’incontro spiegando i confini, i punti di forza e l’ambito della propria azienda, nell’ottica di far comprendere fin da subito la realtà in cui si sta per svolgere l’audit. IT e softwarehouse sono spesso estranei alle Gmp: “alieni”, come definito da una ispettrice Aifa. In questi casi, Pier Luigi Agazzi – general manager Adeodata – sottolinea come l’esperienza può fare la differenza. «Quello delle esperienze è veramente un punto fondamentale per il nostro mondo. Una volta ci è capitato di auditare un centro elaborazione dati di grande fama: mi sono sentito rifiutare le copie di alcuni documenti (evidenze) per pretestuose questioni di sicurezza, mentre la raccolta delle evidenze è molto utile perché richiesta dall’annex 11 (3.4: Quality system and audit information relating to suppliers or developers of software and implemented systems should be made available to inspectors on request), ma soprattutto perché mostra in concreto il modo di lavorare e il rispetto dei requisiti regolatori».

Capire il contesto

Sembra ovvio, eppure è un altro punto su cui diversi intervistati hanno voluto soffermarsi. Non è banale riuscire a comprendere il contesto, le peculiarità, i punti di forza e gli aspetti che maggiormente caratterizzano un ambito, se non è quello di appartenenza. Per questo molti intervistati hanno raccontato di aver accolto audit in cui si è perso il focus centrale dell’incontro, puntando forse troppo e con troppa minuziosità su aspetti burocratici e regolatori secondari per quello specifico settore. Non conoscere a fondo la realtà che si va a valutare porta a un grande rischio: non saper riconoscere la qualità, come spiega chiaramente Corbetta. «La nostra realtà è particolare perché veniamo ispezionati dalle aziende farmaceutiche ma siamo una lavanderia industriale. Ci accade molto spesso di ricevere una agenda molto fitta, ma che manca del punto chiave, ovvero di raccogliere informazioni circa la nostra reale attività (lavaggio indumenti).  Ci aspetteremmo domande su come si lavano i tessuti, sui detersivi usati, su come maneggiamo i capi in base ai diversi tipi di sporco con cui vengono a contatto (rischio biologico/reale, pulizia del capo dopo il lavaggio), sui sistemi che usiamo, invece non ne riceviamo alcuna. Questo per noi è un grande gap perché la nostra attività e la qualità con cui la svolgiamo si identifica in questi passaggi per noi dirimenti.

Se non vengono colti e compresi dall’auditor, si corre il rischio che il cliente che ci ispeziona e ispeziona poi altre realtà non sappia effettivamente cogliere le differenze sostanziali in termini di qualità del servizio».

Guardando eccessivamente e compulsivamente l’aspetto burocratico si rischia di esagerare e non portare valore aggiunto all’esito dell’audit. «E questo è purtroppo il trend che si sta osservando oggi nel nostro mondo, ovvero la farmacovigilanza – commenta Andrea Oliva, head of pharmacovigilance di Mylan. «Gli audit stanno diventando molto burocratici, ci si focalizza sulle minuziosità della normativa anche se il nostro contesto è particolare poiché lavoriamo sempre in urgenza.

Ci è capitato di avere auditor che stavano ore sulla parte burocratica cercando la perfetta conformità e poi non vedessero grandi problemi come un anticoncezionale femminile dato a un uomo o un farmaco per impotenza dato a un bambino. Per questo credo che in fase di audit sia certamente necessario chiedere la parte documentale ma non meno essere informati sul background aziendale, per capire il contesto in cui si lavora».

Studiare le realtà confinanti

Quando non ci sono requisiti richiesti per legge, puntare alla qualità e decidere cosa è arricchente può essere complesso. Come si può riuscire a migliorare e innalzare il livello di qualità delle prestazioni erogate e quali soluzioni possono essere messe in campo per risolvere le criticità di cui abbiamo parlato? Alcune realtà hanno tentato di colmare questo gap culturale provando seriamente a vestire i panni altrui.

«Quattro anni fa – racconta Bardeglinu – l’azienda ha deciso di inserire al suo interno una figura del mondo pharma dedicata alla qualità, proprio per imparare a vestire e conoscere i panni altrui. Parliamo di me, che infatti provengo dal farmaceutico. L’azienda multinazionale ha un centro di competenza a livello globale che si confronta mensilmente per definire gli standard che l’azienda dovrà seguire in termini di qualità. L’aver inserito una figura del mondo del farmaco all’interno del mondo degli spedizionieri è visto da chi ci audita come punto di vantaggio e su questo riceviamo complimenti».

Anche Faravelli ha puntato molto sulla conoscenza degli ambiti diversi dal proprio, investendo ampiamente in cultura e conoscenza.

Come? «Studiando le normative e gli standard applicabili ai nostri clienti – spiega il QA Giulio La Ferla – e partecipando a gruppi di studio AFI anche di settori diversi».

Giulio La Ferla

Per le realtà del settore in cui non ci sono requisiti obbligatori per legge – aggiunge Elisabetta Palazzo, supervisor del laboratorio controllo qualità packaging di Recordati, materiali confezionamento primario e secondario – può essere interessante e costruttivo proporre audit di gruppo. Questi audit sono sempre interessanti, ma in questo contesto, in particolare, le esperienze, competenze, e peculiarità di diverse figure professionali possono permettere di condurre un audit in modo più arricchente per tutti».

Elisabetta Palazzo

Gestire gli aspetti pratici

Dove cenare la sera prima dell’audit e dove organizzare il pranzo il giorno stesso? Che abbigliamento indossare in fase di audit e che atteggiamento avere? In una domanda: dunque, come muoversi tra questi aspetti che sebbene collaterali sono comunque importanti? Secondo il parere di Giovanni Boccardi – AFI – il rapporto con il fornitore deve rimanere sempre sul piano formale. «Credo sia meglio mantenere un certo distacco, per questo propongo il pranzo in azienda se ricevo un audit e richiedo lo stesso se sono io a effettuarlo. Per la cena, ove possibile, cerco di evitarla». L’indipendenza e la formalità, a parer suo, possono essere sottolineate anche rendendosi autonomi nell’organizzare il viaggio e l’accomodamento: «Lascio eventualmente al fornitore l’onere dello spostamento in taxi per arrivare alla sede se questa è effettivamente fuori mano». Infine, no a gadget o a regali. Eppure, secondo il punto di vista e l’esperienza di Stefano Magnaghi – sales director di Alipharma, distributori materiali di confezionamento – «negli ultimi anni è cresciuta la richiesta di informalità in fase di audit, che non ha a che fare con la mancanza di rispetto o di serietà lavorativa». Il possibile motivo prova a spiegarlo La Ferla, vedendo nella conoscenza la base del successo: «I “fuori onda”, ad esempio le cene, sono molto importanti perché ci si “allenta la cravatta”, consentendo un confronto costruttivo con il proprio interlocutore».

Come gestire audit internazionali

Questo confronto costruttivo può risultare di particolare importanza quando gli audit sono condotti all’estero. «È proprio durante i pranzi o le cene con i fornitori esteri di culture diverse – continua La Ferla – che abbiamo potuto comprendere meglio le usanze del paese, i modi di fare. Alcuni esempi: negli USA, il biglietto da visita è spesso la struttura, in Cina il biglietto da visita è in genere la persona (guanxi) e l’Europa invece si colloca in una via di mezzo. E ancora in India c’è un forte senso dell’etica e chiedere per esempio a loro informazioni sul pest control può creare qualche imbarazzo. In Giappone, invece, trovano estremamente imbarazzante dire apertamente di no… Tutto questo traslato durante un audit significa anche riuscire a interpretare alcune risposte per rassicurare ove possibile l’interlocutore, non nell’ottica di perdere qualità, ma nell’ottica di creare il giusto dialogo e una empatia utile all’obiettivo». Lo studio della cultura del posto quindi può sembrare utile, durante gli audit, per evitare “incomprensioni”. Incomprensioni che occhi e orecchie di un commerciale, quale è Magnaghi, con il suo punto di vista diverso, in effetti hanno registrato in diversi audit. «Mi è capitato che le due parti interessate in fase di audit rendessero la verifica più lunga e faticosa del previsto per fraintendimenti e errate valutazioni d’intenzioni manifestate con il linguaggio non verbale. Una buona comunicazione, comprensione e conoscenza del mondo altrui certamente possono in questo senso andare a vantaggio dell’audit stesso».

D’altronde si sa, paese che vai, usanza che trovi. Gli aneddoti degli intervistati su questo punto si sono focalizzati maggiormente sull’Asia. Maria Figini – Regulatory Affairs Manager di PCA S.p.A. (Starting material/API/Eccipienti) e membro di Aschimfarma, – racconta che «le criticità quando si ha a che fare con i paesi asiatici sono diverse. Non sempre è semplice o scontato, ad esempio, poter richiedere di vedere alcuni locali, come il magazzino, o alcuni documenti. In una parola, ci è capitato di dover fronteggiare una scarsa trasparenza». Anche altri fornitori hanno raccontato aneddoti simili, in cui aziende cinesi non hanno autorizzato l’ispezione di alcuni locali come quello della produzione, o hanno fatto resistenza alla richiesta di visionare alcuni documenti. Oltre alla cultura, anche la lingua è un problema, e molte aziende raccontano che per sopperire alle barriere culturali e a questa difficoltà di trasparenza totale, si sono dotate di traduttori di fiducia che seguono l’azienda durante tutto l’audit internazionale. Faravelli, ad esempio, «ha compreso l’importanza di avere un ufficio in Cina, spiega La Ferla, che oggi conta 5 dipendenti e che aiuta molto nella comprensione delle differenze culturali e permette una sicurezza all’azienda nell’affrontare le differenze linguistiche».  «Noi appuntiamo sempre in agenda la lingua con cui verrà condotto l’audit», specifica Bardeglinu. Potrebbe sembrare un dettaglio banale, ma non lo è. Come infatti racconta la dottoressa «durante un audit internazionale la società intermediaria si è presentata presso la nostra sede con un auditor che non parlava inglese, senza avvertirci prima. Ovviamente l’audit è stato di difficile conduzione. Nel report finale sono state evidenziate delle deviazioni maggiori che erano l’ovvio frutto di incomprensioni nate per una evidente barriera linguistica che ha impedito ogni possibilità di comunicazione proficua. Per questo da allora appuntiamo sempre in agenda la lingua con cui verrà condotto l’audit, in modo che, se fosse necessario, possiamo avere il tempo di prevedere la presenza di un interprete».