Il termine colangiocarcinoma racchiude tutte le neoplasie dell’albero biliare (escludendo la colecisti) che si originano dalla proliferazione rapida e incontrollata dei colangiociti, le cellule che costituiscono le pareti dei dotti biliari.

A seconda della sede di proliferazione lungo le ramificazioni dei dotti, il colangiocarcinoma viene classificato come:

  • colangiocarcinoma intraepatico (CCI), se si sviluppa all’interno del fegato,
  • colangiocarcinoma extraepatico (CCE), se nasce dalle vie biliari extraepatiche, che a sua volta può essere perilare (all’ingresso dei dotti biliari nel fegato) o distale.

«Questa neoplasia si può presentare in tre forme: quella classica, ovvero un nodulo più o meno grande (mass forming) che rappresenta fino all’80% dei casi e riguarda il 90% della forma intraepatica. Poi ci sono le forme più difficili da diagnosticare: le periduttali in cui il tumore si presenta con un’infiltrazione lungo i grandi dotti, e le intraduttali in cui il tumore è localizzato all’interno dei dotti» – spiega Giovanni Brandi, presidente del Gruppo Italiano Colangiocarcinoma (G.I.C.O.).

Sintomi del colangiocarcinoma

Nella fase iniziale di malattia più della metà dei pazienti con colangiocarcinoma non presenta sintomi o ne presenta alcuni non facilmente adducibili a questa neoplasia, come dolore addominale, febbre, malessere, sudorazioni notturne, cachessia e perdita dell’appetito.

Fattori di rischio del CCA

La colangiocarcinogenesi, cioè la formazione di un colangiocarcinoma, è un fenomeno multifattoriale. 

Numerosi studi hanno cercato di individuare quali fossero le predisposizioni genetiche, ambientali e sociali che influenzavano l’insorgenza del colangiocarcinoma.

I fattori di rischio più noti sono: 

  • colangite sclerosante primaria, una grave malattia infiammatoria cronica; 
  • anomalie congenite a carico dei tratti biliari (ex. Sindrome di Caroli); 
  • litiasi biliare intraepatica (presenza di calcoli, piccoli aggregati solidi che si formano a seguito della precipitazione di sostanze contenute nella bile); 
  • esposizione a determinate sostanze chimiche e tossine, come il torotrasto (presente in diverse procedure di diagnostica ai raggi X); 
  • infestazioni parassitarie del fegato (poco comuni alle nostre latitudini),
  • cisti del coledoco.

Nell’elenco dei fattori di rischio trovano spazio, anche se con un ruolo più marginale, l’epatite B e C, la cirrosi epatica, la sindrome di Lynch II e condizioni come obesità, diabete mellito, eccessivo consumo di alcool e fumo di sigaretta.

Fattori di rischio sospetti, ma non ancora accertati, includono le malattie infiammatorie croniche intestinali (IBD) e la presenza di specifici polimorfismi genetici.

L’epidemiologia ha mostrato differenze dal punto di vista geografico ed etnico.

Recentemente, e in particolare in Italia, grazie agli studi effettuati a Bologna dal gruppo di Giovanni Brandi, si è identificata come responsabile dell’aumento epidemiologico dei casi di CCI nel nostro Paese la pregressa esposizione all’amianto. 

In occasione dell’incontro stampa con gli esperti dal titolo “Colangiocarcinoma: da tumore raro a patologia trattabile”  tenutosi a Milano il 26 novembre 2019 e organizzato con il contributo non condizionato di Incyte, Giovanni Brandi ha spiegato:

«Negli ultimi anni stiamo osservando nella pratica clinica un incremento delle forme intraepatiche, pari a circa il 4% annuo, in alcuni paesi europei tra cui anche l’Italia. Si tratta di un aumento reale non legato a miglioramenti della diagnostica che comincia ad interessare perfino un target pazienti diverso rispetto al passato, ovvero  giovani a partire dai 30 anni. Inoltre previsioni molto realistiche ci dicono che tra 15 anni le neoplasie intraepatiche costituiranno la causa di circa la metà delle morti primitive per il fegato, come gli epatocarcinomi [Smittenar et al; BJC 2016]».

«L’aumento epidemiologico delle forme intraepatiche è sicuramente ascrivibile ad un peso diverso dei fattori di rischio ambientali cambiati negli anni. Alcuni studi realizzati dal nostro Gruppo anche in collaborazione con lo IARC (International Agency for Research on Cancer di Lione), dimostrano che l’amianto è associato in oltre la metà dei casi di colangiocarcinoma intraepatico con un rischio incrementale fino ad 8 volte [Brandi et al. Cancer Causes Control 2013; Farioli A, Straif K, Brandi G, et al. Occup Envir Med 2017]» – aggiunge Brandi.

Diagnosi e stadiazione del colangiocarcinoma

Nella maggior parte dei casi, a causa dei sintomi aspecifici, i tumori delle vie biliari sono diagnosticati in fase avanzata quando compare il segno più comune, l’ittero, causato dall’ostruzione del dotto biliare, e, ad oggi, non esistono metodi per la diagnosi precoce di carcinomi delle vie biliari, come test di screening o esami diagnostici di routine. I test diagnostici si effettuano di routine soltanto nei pazienti ad alto rischio (infezione cronica da HBV o HCV, epatopatia alcolica).

«Questa neoplasia viene scoperta accidentalmente perché ha sintomi molto subdoli (astenia, dolenzia in regione epatica) o per accertamenti eseguiti per riscontro casuale di alterazioni di laboratorio (es elevazioni gamma GT). Per questo motivo spesso riscontriamo tumori di notevoli dimensioni già all’esordio. I fattori di rischio sono estremamente importanti. Alcuni sono rari, ma molto potenti: ad esempio la presenza di calcoli intraepatici. Altri sono meno potenti, ma molto diffusi nella popolazione italiana, come l’obesità, la steatosi epatica, pregresse infezioni da virus. Alcuni fattori di rischio sono epidemici in alcune parti del mondo, come infezioni parassitarie dell’albero biliare (molto diffuso in Tailandia), ma assenti in altre nazioni» – sottolinea Giovanni Brandi. 

Le tecniche per la diagnosi e la valutazione del tumore delle vie biliari comprendono: 

  • Ecotomografia;
  • Risonanza Magnetica e Colangio-Risonanza;
  • TAC. 

La prima indagine è l’ecotomografia, un’indagine di imaging a livello addominale. Questo esame non è invasivo e permette di precisare la presenza del tumore e l’entità della dilatazione delle vie biliari. Il secondo passaggio, che permette di precisare la natura, la sede e la causa dell’ostruzione, è la risonanza magnetica. Infine, si può effettuare una TAC che rileva con grande dettaglio l’anatomia dell’albero biliare e l’eventuale diffusione del tumore a strutture attigue. Alla TAC spetta inoltre il compito di guidare le biopsie mirate sull’eventuale massa responsabile dell’ostruzione.

«La diagnosi definitiva di colangiocarcinoma si ha con l’esame del tessuto, cioè tramite biopsia (indispensabile quando non si prevede la resezione chirurgica). In futuro sarebbe auspicabile fare eseguire almeno tre campionamenti durante la biopsia che consenta oltre alla diagnosi anche una successiva valutazione molecolare che permetta di essere inseriti in studi sperimentali nell’ambito delle nuove terapie – aggiunge Brandi. – Le indagini strumentali che possono essere impiegate per effettuare la diagnosi sono in primis, nelle forme mass forming, l’ecografia dell’addome, (che serve anche a valutare i segni indiretti della malattia, come la dilatazione delle vie biliari), la TC con valutazione specifica quadrifasica (utile a differenziare gli dagli HCC) e la egualmente la RNM con mezzo di contrasto epatospecifico. Nelle forme periilari ed intraduttali lo standard è la colangio-RNM e l’esame endoscopico intrabiliare (ERCP)».

Una volta diagnosticata la neoplasia, è fondamentale stabilire la stadiazione del tumore, per poter definire il migliore approccio terapeutico. Come nella maggior parte dei tumori solidi, il sistema utilizzato nel colangiocarcinoma è il TNM (Tumore, linfoNodi, Metastasi), che considera rispettivamente le dimensioni della neoplasia, il numero di linfonodi coinvolti e la presenza di metastasi. A seconda di questi 3 parametri, si potranno ottenere 4 diversi stadi di malattia, da I a IV.

​Trattamento dei tumori delle vie biliari

Il trattamento di elezione per il colangiocarcinoma è l’intervento chirurgico che permette di asportare la neoplasia

Le uniche altre alternative sono rappresentate dalla chemioterapia di prima linea e dalla radioterapia. Non sono disponibili, ad oggi, dei trattamenti farmacologici specifici contro questo tumore.

«L’unico trattamento potenzialmente curativo per il colangiocarcinoma rimane la resezione chirurgica. Di solito la chirurgia permette una guarigione dei CCI in circa il 30% dei casi. Tuttavia solo una minoranza dei pazienti può essere operato – chiarisce Giovanni Brondi – dato che la maggioranza si presenta già alla diagnosi con malattia localmente avanzata o metastatica. Anche dopo un intervento chirurgico potenzialmente curativo, si manifesta una recidiva in circa il 60% dei pazienti entro i primi due anni dal trattamento. Per lesioni recidivanti piccole può essere eseguita una radioembolizzazione, quest’ultima è in grado di fornire risultati molto buoni in noduli inferiori a 2 cm. Per la forma metastatica il trattamento d’elezione rimane la chemioterapia che rappresenta lo standard di prima linea di trattamento. Laddove questo trattamento si dimostri inefficace si fa riferimento a diversi programmi di ricerca dedicati alle terapie biologiche per la malattia in fase avanzata. Negli ultimi anni si stanno studiando le alterazioni molecolari dei tumori delle vie biliari, soprattutto di quelli intraepatici. Ne sono un esempio in primis le mutazioni di IDH-1 e le alterazioni del recettore FGFR-2, di cui si dispone di risultati molto incoraggianti. Infine esistono altri filoni di trattamento con immunoterapia sia in seconda linea che in prima linea associata alla chemioterapia: al momento questi studi sono in corso e non disponiamo ancora dei risultati». 

Terapie mirate alle alterazioni genetiche alla base del colangiocarcinoma

La conoscenza delle mutazioni genetiche che si accumulano in una o più cellule e ne determinano la crescita incontrollata con formazione del tumore permette di intervenire in maniera estremamente mirata sulla neoplasia. Grazie alle nuove metodiche di sequenziamento del genoma, la ricerca negli ultimi decenni ha investito molto nel tentativo di individuare le anomalie genetiche alla base dei diversi tumori.

Ampi sforzi di sequenziamento genico hanno dimostrato che oltre il 50% dei pazienti con colangiocarcinoma presenta almeno una mutazione nota. Alcune delle alterazioni rilevate sono: 

  • Fusioni e riarrangiamenti del Recettore 2 di FGF (FGFR-2);
  • Mutazioni di IDH-1;
  • Amplificazioni e mutazioni di HER-2;
  • Mutazioni di B-RAF, PIK3CA, NTRK. 

Si tratta, nella maggioranza dei casi, di geni coinvolti nei meccanismi di crescita e replicazione cellulare, che vengono spenti o accesi in modo anomalo a causa delle mutazioni e portano alla proliferazione incontrollata delle cellule malate. 

Recenti studi hanno permesso di identificare delle terapie mirate contro due di queste alterazioni, quasi completamente mutualmente esclusive tra loro: traslocazioni di FGFR-2 (presenti in circa il 10-16% dei pazienti con CCI) e mutazioni di IDH-1 (presenti in circa il 20% dei CCI).

Studi di fase II hanno mostrato promettenti risultati preliminari nell’inibizione della traslocazione di FGFR-2, in casi di colangiocarcinoma localmente avanzato o metastatico; risultati preliminari che dovranno essere confermati dalla fase III dello studio attualmente già in corso anche in numerosi centri italiani.

Un nuovo e ulteriore ambito di studio sembra derivare dallo studio dei cosiddetti “microsatelliti”, brevi tratti di DNA che sembrano svolgere un ruolo importante nella corretta replicazione dei geni. Si stima, infatti, che circa il 2- 5% dei casi di colangiocarcinoma possa presentare un deficit nella riparazione degli errori, rilevabile grazie al test di stabilità sui microsatelliti.

«Oggi conosciamo le mutazioni geniche che guidano la crescita dei colangiocarcinomi. In particolare, circa la metà dei colangiocarcinomi intraepatici ha almeno una mutazione rilevante per la terapia in quanto costituiscono il target di farmaci a bersaglio molecolare – afferma Davide Melisi, professore associato di Oncologia, Università di Verona. – Le mutazioni che sono indispensabili ormai da ricercare alla diagnosi, sono quelle del recettore del Fibroblast Growth Factor, detto anche FGFR-2 e le mutazioni di un gene che codifica per una proteina coinvolta nel metabolismo che si chiama IDH-1».

In particolare le traslocazioni del recettore FGFR-2 sono presenti in circa il 10-16% dei pazienti con colangiocarcinoma intraepatico (CCI), mentre le mutazioni di IDH-1 sono presenti in circa il 20% dei CCI [Cholangiocarinoma: epidemiology and risk factors, S.A. Khan, S. Tavolari, G. Brandi, 2019].

«Abbiamo assistito in un lasso di tempo molto breve ad un vero e proprio cambiamento di paradigma nel trattamento dei pazienti affetti da questa neoplasia: da un quadro molto limitato di regimi solo chemioterapici si è passati a realizzare farmaci a bersaglio che si sono dimostrati utili nella terapia del colangiocarcinoma localmente avanzato e metastatico resistente alla chemioterapia. Stiamo inoltre testando questa classe di farmaci anche come trattamento di prima linea, ovvero come strategia subito dopo la diagnosi» – aggiunge Davide Melisi.

«La distribuzione geografica dei centri specializzati nel trattamento del colangiocarcinoma è disomogenea nel nostro Paese: ci sono Regioni più virtuose in cui si trovano più strutture, come Piemonte e Lombardia, e altre in cui non è presente alcun centro, come Calabria e Sicilia – afferma Paolo Leonardi, presidente Associazione Pazienti Italiani Colangiocarcinoma. – Per questa ragione, sul nostro sito (www.apicinfo.it) c’è un elenco dei centri regionali di riferimento a cui rivolgersi quando il paziente ha un sospetto di malattia. Ma c’è ancora tanto lavoro da fare per garantire le migliori cure a tutti i pazienti».