Molti studi clinici utilizzano endpoint indiretti, i cosiddetti endpoint surrogati, per dimostrare il benefico clinico di un medicinale in corso di sperimentazione: una pratica che, secondo una serie di articoli pubblicati recentemente sul British Medical Journal, non darebbe sufficienti garanzie circa l’effettivo beneficio clinico e, quindi, dovrebbe rappresentare unicamente una “ultima risorsa”.
I dati riportati da BMJ indicano una percentuale di studi clinici basati su endpoint surrogati per misurare l’efficacia dei farmaci in sperimentazione passata da meno del 50% a metà anni ’90 a circa il 60% del biennio 2015-2017, con picchi fino all’80% per gli studi volti all’approvazione regolatoria in aree terapeutiche quali l’oncologia.
Appello a un uso più selettivo degli endpoint surrogati
L’appello rivolto dalle colonne della rivista è a un uso più selettivo di questo tipo di endpoint, che dovrebbe venire ristretto alla sola sperimentazione nell’ambito delle malattie croniche, in modo particolare ove i trial necessitino di un periodo di follow up eccessivamente lungo. Il ricorso a endpoint surrogati è spesso giustificato dalla complessità degli studi clinici e dalla necessità di ridurre la durata e abbattere i costi delle sperimentazioni, con l’obiettivo di giungere più velocemente ad approvazione da parte degli enti regolatori e, quindi, garantire un più rapido accesso da parte dei pazienti.
Secondo il team di autori del National Institute for Health and Care Excellence (NICE) britannico guidato da Dalia Dawoud, questo tipo di approccio porterebbe con sé anche implicazioni negative, soprattutto a livello delle decisioni a cui sono chiamati gli enti preposti all’health tecnology assessment (HTA) e a quelle terapeutiche in capo ai medici.
Gli autori suggeriscono anche di coinvolgere maggiormente le associazioni dei pazienti nei processi di valutazione regolatoria e di HTA, al fine di assicurare l’accettabilità degli endpoint surrogati nel processo decisionale in corso.
Endpoint surrogati solo per studi di fase II?
Secondo le giornaliste Jeanne Lenzer e Shannon Brownlee, che firmano l’editoriale a commento dell’articolo, l’uso di routine degli endpoint surrogati non andrebbe a beneficio dei pazienti, in quanto non in grado d’intercettare esiti quali una maggiore durata e/o qualità della vita, che possono risultare molto importanti dal punto di vista dei malati. Le autrici riportano che l’americana FDA nel solo 2018 ha approvato il 73% dei prodotti (43/59) con procedura accelerata, in molti casi sulla base di endpoint surrogati. A ciò spesso seguirebbe una scarsa propensione a condurre gli studi post-approvazione secondo la tempistica prevista in sede di autorizzazione accelerata, senza che FDA chieda conto alle aziende della mancata conferma del beneficio clinico.
La proposta è che il ricorso a endpoint surrogati sia permesso solo per gli studi di fase II, volti a determinare che il beneficio atteso sia maggiore del rischio per il paziente, e giustifichi quindi l’esecuzione di studi clinici di fase III.
BMJ riporta anche l’opinione diretta di un paziente affetto da sarcoma e passato attraverso una prima fase di entusiasmo per un possibile trattamento – sperimentato sulla base di un endpoint surrogato e approvato in base a un endpoint secondario -, poi ritirato in quanto è mancata conferma dell’efficacia negli studi post-approvazione. Secondo quest’opinione, il ricorso a endpoint surrogati dovrebbe essere accompagnato dall’uso di patient reported outcomes (PROs), di modo da catturare anche la prospettiva dei pazienti sull’effettiva utilità del farmaco in sperimentazione.