Esistono segni o sintomi che possono anticipare l’espressione clinica della malattia di Alzheimer? Il quesito è legittimo, la risposta però non è semplice. L’identificazione di fattori di rischio e di segnali di allarme che possano offrire un margine di intervento alla prevenzione primaria è l’obiettivo di molti degli studi dedicati all’inquadramento eziopatogenetico dell’Alzheimer.
Lo studio
In un recente lavoro condotto presso le università di Bordeaux e di Parigi, che è stato pubblicato a marzo dalla rivista The Lancet Digital Health, sono state isolate dieci condizioni, su 123 esplorate, presenti con frequenza statisticamente significativa nell’anamnesi di soggetti affetti dalla malattia. I ricercatori francesi hanno attinto alla piattaforma europea THIN (The Health Improvement Network) di proprietà del Gruppo Cegedim, società di tecnologia sanitaria, costituendo una casistica di quasi 40.000 pazienti e altrettanti controlli estratti dai database di Francia e Regno Unito degli ultimi 25 anni. L’esame della storia clinica pregressa, valutata su un arco di 10-15 anni, dei soggetti del campione ha messo in luce per quelli con Alzheimer la ricorrenza di alcune comorbidità, non riscontrata invece nel gruppo di controllo.
Con la massima frequenza sono risultati associati alla malattia il disordine depressivo maggiore e i disturbi d’ansia, e a seguire i deficit mnemonici, la sintomatologia reattiva da stress grave, l’ipoacusia, la stanchezza cronica, gli episodi sincopali, la spondilosi cervicale, la stipsi cronica e il calo ponderale anomalo, la cui presenza è stata registrata in una finestra temporale di 2-10 anni antecedente la diagnosi neurologica. Si tratta di una lista piuttosto eterogenea di possibili indicatori ai quali le ricerche future dovranno eventualmente assegnare il valore di effettive “red flags” e un significato prognostico, chiarendo in primo luogo se siano da considerare fattori di rischio oppure sintomi prodromici dell’Alzheimer. Nell’intenzione degli autori lo studio, che è stato svolto nell’ambito del progetto Aramis del Paris Brain Institute, proseguirà con l’inclusione di dati provenienti dai database di altri paesi e con l’estensione dell’analisi ad altre patologie neurodegenerative.