Il test per identificare malattie cromosomiche G-test permette di analizzare il DNA del feto in gestazione attraverso un prelievo di sangue materno. Alle possibilità di individuare le trisomie più comuni, aggiunge la capacità di rilevare importanti sindromi da delezione cromosomica: oltre alla Cri du Chat, 1p36 in cui manca una parte del cromosoma 1 e 2p33.1 che colpisce il cromosoma 2. Lo annuncia Bioscience Genomics in un comuncato stampa.

Il G-test permette di stimare il rischio di malattia cromosomica a partire da un prelievo di sangue materno
Il G-test permette di stimare il rischio di malattia cromosomica a partire da un prelievo di sangue materno

Il DNA fetale si trova nel plasma materno sottoforma di frammenti derivanti dalla normale rottura di parte dei trofoblasti, le cellule che, durante le prime settimane di gestazione, nutrono l’embrione e che contribuiranno a formare la placenta.

Il G-Test si basa sul sequenziamento di questi frammenti di DNA del feto che circolano nel sangue della gestante e può essere effettuato dalla decima settimana di gestazione. A partire da questa data, infatti, è possibile trovare nel sangue materno una quantità di DNA fetale tale da permettere una analisi attendibile.

La valutazione del DNA libero del feto presente nel plasma materno è poi resa possibile dall’evoluzione tecnologica delle piattaforme di Next Generation Sequencing (NGS) e in particolare dallo sviluppo della metodica definita Massively Parallel Shotgun Sequencing (MPSS) e di algoritmi di elaborazione.

Il G-test vanta una validazione ottenuta da 800mila test effettuati dei quali quasi 150mila pubblicati e può essere eseguito nelle gravidanze singole e nelle gravidanze gemellari (con massimo 2 feti), sia naturali sia da fecondazione assistita.

Il G-test fa parte dei test NIPT (Non Invasive Prenatal Test) ed è un test di screening che, pertanto, ha lo scopo di isolare dalla popolazione generale i soggetti che sono da considerare a rischio di avere le anomalie oggetto dell’indagine. Esso può far emergere una situazione di alto rischio ed evidenziare la necessità di un approfondimento diagnostico o indicare che il proprio figlio è a basso rischio di essere affetto dalle anomalie oggetto del test. La sua attendibilità del 99% permette di ridurre il ricorso ad approfondimenti invasivi, facendo registrare soltanto lo 0,05% di falsi positivi.

Oltre alla determinazione del sesso, il test rende possibilie individuare il rischio per:

  • trisomia 21 (sindrome di Down),
  • trisomia 18 (sindrome di Edwards),
  • trisomia 13 (sindrome di Patau),
  • trisomia 22,
  • trisomia 16,
  • trisomia 9,
  • sindrome di Turner,
  • sindrome di Klinefelter,
  • sindrome di Jacobs,
  • sindrome XXX,
  • sindrome Cri du Chat,
  • sindrome da delezione 1p36,
  • sindrome da delezione 2q33.1,
  • sindrome di Prader-Willi,
  • sindrome di Angelman,
  • sindrome di Jacobsen,
  • sindrome di DiGeorge 2,
  • sindrome di Van der Woude,
  • sindrome da delezione 16p12.

Patologie che fanno paura, per molte delle quali non esiste ancora una cura e che prevedono spesso diversi gradi di disabilità fisica e intellettiva o prospettive di vita estremamente brevi.

Malattie rare? Non proprio: le anomalie cromosomiche considerate singolarmente sono patologie poco frequenti, ma, moltiplicando l’incidenza per il numero delle nascite, soltanto le trisomie 13, 18 e 21 contano circa 779 casi nel nostro Paese ai quali bisogna aggiungere circa 474 casi di neonati affetti da delezioni e microdelezioni. Sono state prese in considerazione otto malattie cromosomiche: sindrome Cri du Chat, Jacobson, Van der Woude, Prader- Willy, delezione 1p36 delezione 16p12 e trisomie. In totale si ha una stima di 1253 casi ossia 1 bambino ogni 406 nati vivi. I dati di incidenza per singola patologia sono tratti dal National Organization for Rare Disease e messi in relazione col numero di nascite del 2014. Nel caso di incidenze che prevedono un range è stata calcolata una media.

Giuseppe Novelli, rettore dell’Università di Tor Vergata di Roma e specialista in Genetica Umana spiega: «È importante conoscere tempestivamente anche la presenza di condizioni genetiche che non vengono ereditate da uno dei due genitori, ma che si verificano in maniera casuale e che possono colpire chiunque nella popolazione generale. Malattie che talora diventano più frequenti all’aumentare dell’età della gestante. Sapere se il feto presenta delle anomalie gravi permette di impostare un percorso di sostegno prima della nascita, ma anche di decidere se portarla a termine nel caso che la malattia del bambino abbia una prognosi infausta, basti pensare alla trisomia 22 in cui i nati vivi sono una rarità, ai neonati con Sindrome di Van der Woude che nascono con gravi alterazioni dello sviluppo di testa e volto e con labio-palatoschisi, sino alla Trisomia 13 in cui la metà dei neonati muore entro il primo mese e solo il 10% sopravvive sino a un anno. Nella maggior parte dei casi si tratta di malattie associate a disabilità mentale o fisica, immunodeficienze, anomalie cardiache, convulsioni, disturbi ormonali ecc».

Il G-test, completamente italiano, è distribuito grazie ad apposite convenzioni con i reparti di ginecologia dei più grandi ospedali italiani o può essere richiesto dal singolo ginecologo. I campioni di sangue arrivano a Tor Vergata seguendo rigidi protocolli di trasporto: «Subito dopo il prelievo si attiva la cosiddetta “catena di custodia” che prevede una speciale etichettatura del campione che ne garantisce la titolarità e la tracciabilità, l’assegnazione ad un corriere convenzionato e lo stoccaggio del materiale biologico secondo i più elevati standard di sicurezza» prosegue Novelli. Tutto il processo di analisi avviene presso la Bioscience Genomics, sita nell’ateneo, in collaborazione con la UOC di Genetica Medica del Policlinico Universitario di Tor Vergata.

Il referto viene inviato al ginecologo che ha il compito di discuterlo con la paziente. In caso di risultato positivo nel quale si individua un “rischio” che il feto sia affetto da una patologia (si tratta infatti di una indagine di screening e non diagnostica), la gestante viene avviata a un percorso di counseling genetico per aiutarla a gestire il resto della gravidanza. Il G-test con esito positivo deve quindi essere confermato da una amniocentesi o villocentesi.

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