È ormai noto da tempo il ruolo che le biotecnologie ricoprono in ambito farmaceutico. Non si tratta soltanto di tecnologie che sfruttano i principi base del vivente per la messa a punto di nuovi farmaci per il trattamento di malattie, ma di un vero e proprio incubatore di innovazioni che consentono la comprensione a tutto tondo della patogenesi delle malattie al fine di sviluppare la migliore strategia per la diagnosi, la terapia e il follow-up delle stesse. Questo nuovo rivoluzionario paradigma di ricerca, che sta portando all’affermarsi di nuovi modelli di medicina personalizzata consente già oggi in maniera concreta di ottenere farmaci più efficaci e talvolta mirati alla cura di una specifica popolazione, se non quando alla cura di singoli pazienti.

A poco più di trent’anni dall’immissione in commercio del primo farmaco biotecnologico, l’insulina umana ricombinante, prodotta tramite batteri geneticamente modificati, sono quasi 200 i farmaci biotecnologici innovativi oggi a disposizione del medico, e più di 325 milioni i pazienti che hanno potuto beneficiare dello straordinario contributo di queste metodiche non solo nella terapia, ma anche nella diagnosi e nella prevenzione di numerose malattie di grande rilievo clinico ed epidemiologico. Di fatto, più del 40% dei farmaci attualmente in fase di sviluppo sono biotecnologici: anticorpi monoclonali, proteine ricombinanti, prodotti a DNA o RNA, terapia cellulare e genica, medicina rigenerativa. Terapie per la cura delle malattie oncologiche, genetiche, infiammatorie, autoimmuni e – non ultime – di numerose patologie neurologiche e degenerative destinate ad assumere un crescente rilievo, soprattutto nei paesi occidentali, in relazione all’aumentata aspettativa di vita della popolazione.

Il costante aumento degli investimenti, l’allungarsi dei tempi necessari per lo sviluppo di un nuovo farmaco, l’elevato profilo di rischio imprenditoriale insito in tale attività, con la riduzione di redditività che ne deriva, spinge infatti l’industria a ottimizzare l’intero processo di R&S, che richiede livelli di specializzazione e competenze sempre più elevati e complessi. L’innovazione esce quindi dai confini aziendali e si sviluppa in rete, secondo un nuovo modello di open innovation che porta realtà diverse (accademia, industria, fondazioni, ecc.) a condividere, in modo efficace e sinergico, le rispettive capacità e il proprio know-how.

È proprio in questo contesto che le imprese biotech sono state protagoniste di un’altra autentica rivoluzione. Già oggi, infatti, in quasi lo 80% dei casi, l’innovazione origina al di fuori dei laboratori di ricerca delle cosiddette “big pharma”, attraverso l’acquisizione di idee, tecnologie e progetti nati in centri di ricerca specializzati, pubblici o privati, o in imprese di minore dimensione, ma ad altissima specializzazione, quali le aziende biotech. Si tratta di un approccio ormai consolidato tramite il quale, superando i limiti di un modello di sviluppo esclusivamente basato sul ricorso a competenze e strutture interne all’azienda, le industrie del farmaco riescono ad alimentare la propria pipeline di prodotti e a far fronte al calo di produttività della ricerca.

Anche in Italia le imprese biotecnologie si confermano incubatori di idee, prodotti e tecnologie per il settore farmaceutico: la maggior parte dei farmaci in sviluppo sul territorio nazionale è infatti di origine biotecnologica, e mostra un più alto tasso di successo nelle fasi cliniche in confronto alle small molecules.

Ma l’innovazione, specie quella ad alto rischio come quella biotecnologica e con un time-to-market molto lungo, richiede ingenti risorse finanziarie e misure di sostegno alla ricerca e all’innovazione, affinché si possano trasformare quelle che adesso sono le basi di una nuova industria del farmaco, in un vero e proprio settore industriale la cui solidità possa fungere da traino per l’intera economia nazionale, e motore di sviluppo occupazionale qualificato.

È quindi preoccupante notare che i sacrifici e i risultati straordinari di un settore anticiclico come questo, capace come non mai di creare storie di successo come nel recente passato, tutt’oggi non vengano riconosciuti dal sistema Paese. Un sistema che non solo non investe nella eccellente ricerca italiana, ma che non promuove nemmeno le condizioni affinché la ricerca possa trasformarsi in imprese e prodotti innovativi. Non sorprende quindi l’assenza di un sistema incentivante la ricerca e lo sviluppo, né le carenze nella gestione dei finanziamenti alla ricerca, né tanto meno l’inadeguatezza degli investimenti di Fondi di Venture Capital (1.6% a livello mondiale) in Italia.

È necessario un cambio di approccio all’interno della crisi di sistema: il settore farmaceutico innovativo non costituisce una ulteriore spesa, ma una risorsa e un motore per lo sviluppo economico e occupazionale del Paese. Dobbiamo creare interazioni e partnership tra industria, istituzioni e stakeholders per promuovere l’innovazione, attrarre risorse e creare un ambiente favorevole ai pazienti, al settore industriale e agli investitori finanziari. Un Paese che crede nell’innovazione deve darsi l’obiettivo di supportare un settore industriale chiave quale quello delle biotecnologie per la salute umana, e ci auguriamo che il 2014 possa essere l’anno in cui delineare finalmente un quadro normativo coerente con le linee guida europee per un settore così particolare e importante, alla pari di quanto hanno fatto altri paesi a livello internazionale.

Alessandro Sidoli – Presidente Assobiotec, Federchimica