persistenza

Non sono resistenti ai farmaci antibatterici, ma “tolleranti”: se ne stanno dormienti, ma appena termina la cura antibiotica o calano le difese immunitarie dell’ospite, sono pronti a riattivarsi, provocando recidive o cronicizzando l’infezione. Sono i cosiddetti persisters, il cui trattamento rappresenta una vera e propria sfida. Tuttavia recenti studi hanno permesso di compiere importanti passi avanti verso lo sviluppo di nuovi agenti antibatterici efficaci per debellare questi patogeni

Gabriele Costantino

Il problema della resistenza ai farmaci antibatterici è ben noto e, sebbene costituisca un emergenza clinica e sociale di portata elevatissima, i meccanismi cellulari e molecolari che ne sono alla base sono sufficientemente ben compresi. Meno conosciuti, ma altrettanto importanti e pericolosi, sono i fenomeni della tolleranza e della persistenza agli antibatterici. La resistenza batterica si produce ogni qualvolta il microorganismo è in grado di impedire al farmaco di legarsi al suo bersaglio molecolare, e renderlo perciò inefficace. Questo può avvenire attraverso svariati meccanismi, che comprendono mutazioni nel gene che codifica per il target, oppure attivazione di sistemi di efflusso che estrudono il farmaco dalla cellula prima che riesca a legarsi al suo bersaglio. In questo caso la strategia è quella di identificare nuovi bersagli e nuovi meccanismi d’azione, che siano in grado di sormontare, in una specie di gara contro il tempo, la capacità del microrganismo di modificarsi e di “respingere” l’attacco chemoterapico. Tuttavia, recentemente si è compreso che molte infezioni croniche, le più difficili da trattare con antibiotici e antibatterici, sono causate non da ceppi resistenti ma da microrganismi sensibili ai farmaci. Come possiamo spiegare questo apparente paradosso? La risposta si trova nei cosiddetti “patogeni persistenti” (persisters, in Inglese). I persisters costituiscono varianti fenotipiche di normali cellule procariote che, appunto, persistono in uno stato dormiente. In questo stato, metabolicamente rallentato, il normale bersaglio per i farmaci antibatterici e antibiotici è presente ma, semplicemente, non è attivo. La sua inibizione, quindi, non ha effetto sulla vitalità dell’organismo. Il fenomeno della persistenza fu osservato per la prima volta nel 1944, quando un microbiologo americano, Bigger, trattò una colonia di Staphylococcus Aureus con penicillina, che in quegli anni fu appunto introdotta nell’uso clinico. Come aspettato, il trattamento con penicillina produsse la lisi della colonia, ma una piccola sottopopolazione sopravvisse. Quando questa sottopopolazione fu re-­inoculata, generò una nuova cultura che era ancora sensibile all’azione della penicillina. Quindi, non si era generata resistenza, ma una forma di tolleranza che fu chiamata, appunto, persistenza. Alla fine degli anni ’40 esplose in tutta la sua complessità il fenomeno della resistenza, che catturò l’attenzione dei ricercatori e dell’industria farmaceutica, e il curioso fenomeno della persistenza fu pressoché dimenticato. Quando, dagli anni ’90 in poi, fu chiaro che la speranza di aver vinto la battaglia contro i batteri era solo illusoria, anche l’interesse verso la persistenza riprese.

Quella sottopopolazione dormiente…

Quello che sappiamo oggi è che i batteri persistenti rappresentano una sottopopolazione di cellule che, spontaneamente, entrano in uno stato dormiente, e non si dividono. Un’osservazione oramai ben stabilita, è che le malattie croniche recidivanti sono spesso accompagnate dalla capacità del batterio a formare un biofilm. Un esempio molto noto di biofilm è la placca dentale, formata da batteri del cavo orale. I biofilm hanno una sorprendente capacità a sopravvivere al trattamento con antibiotici e antibatterici, senza mostrare alcun ovvio meccanismo di resistenza. Sappiamo oggi che i biofilm generalmente non impediscono agli antibiotici di penetrare nelle cellule, ma piuttosto formano una barriera ai componenti di dimensioni maggiore del sistema immunitario. Si può quindi immaginare un modello per la comparsa della tolleranza antibatterica secondo cui gli antibiotici sono in grado di lisare la gran parte dei microrganismi, e il sistema immunitario elimina sia i batteri normali che quelli “persistenti” dal sistema linfatico e circolatorio. Solo una piccola frazione di cellule batteriche sopravvive all’interno dei biofilm, come persistenti dormienti. Quando la concentrazione di antibiotico diminuisce, i persistenti ricominciano a popolare il biofilm e l’infezione produce la recidiva. I biofilm rappresentano quindi un habitat privilegiato per i patogeni persistenti, che consente loro di evadere dal sistema immunitario dell’ospite. Allo stesso modo, ogni qualvolta il sistema immunitario è compromesso, i microrganismi persistenti hanno un ruolo fondamentale nel protrarre cronicamente l’infezione anche nel caso di trattamento con antibiotici, come nel caso, per esempio, di pazienti oncologici o infetti da HIV. La tubercolosi rappresenta l’esempio più noto e più rilevante clinicamente di infezione cronica causata da un microrganismo in grado di evadere dal sistema immunitario. Quando l’infezione è in fase acuta, i trattamenti antimicobatterici sono efficaci e l’infezione può anche regredire spontaneamente, ma il microrganismo può restare in fase latente, dormiente, per anni prima di dare recidiva.

…difficile da sconfiggere

Il fatto che i batteri persistenti siano in uno stato dormiente rende particolarmente problematica la ricerca di farmaci efficaci, in quanto non può essere sfruttato il paradigma di attaccare processi metabolici o anabolici (per esempio la costruzione della parete cellulare) che avvengono, normalmente, con velocità molta elevata. Occorre quindi identificare meccanismi che siano efficaci anche in organismi in latenza. Un recente approccio è basato sull’impiego di un composto, noto come ADEP, che è in grado di attivare una proteasi (ClpP) che porta alla proteolisi di numerose proteine in batteri in fase di crescita. Si è pensato che un più potente attivatore (ADEP4) potesse agire anche su proteine in fase matura, e quindi portare a lisi di batteri in fase dormiente.

chimica farmaceutica figura

È stato quindi dimostrato (Nature,503, 365–370, Nov. 2013) che ADEP4 è in grado di eradicare una colonia di S. aureus sopravvissuta al trattamento con il ciprofloxacin. In maniera ancora più interessante, la combinazione di ADEP4 e rifampicina determina la completa eradicazione di un biofilm di S. aureus in vivo, e una infezione cronica in un modello murino. Studi come questo appena citato costituiscono un importante passo avanti verso lo sviluppo di nuovi agenti antibatterici in grado di fronteggiare la sfida posta dai batteri persistenti.

Afferenze dell’autore: Gabriele Costantino, Dipartimento di Farmacia, Università degli Studi di Parma, gabriele.costantino@unipr.it