Un appello a una più stretta collaborazione tra enti regolatori, sperimentatori clinici nell’ambito dei tumori, ricercatori accademici e pazienti arriva dal gruppo guidato da Huseyin Naci che ha firmato una ricerca pubblicata sull’ultimo numero del British Medical Journal. Ricerca che ha messo sotto la lente le evidenze a supporto dell’approvazione regolatoria di trentadue nuovi farmaci antitumorali da parte dell’Agenzia europea del medicinali (Ema) nel periodo 2014-2016: solo nove di questi medicinali, scrivono i ricercatori in un commento sul blog di Bmj, sarebbero stati approvati sulla base di almeno uno studio clinico controllato e randomizzato giudicato essere a “basso rischio” di bias e risultato esente da critiche maggiori da parte del comitato Chmp di Ema. La ricerca – un’analisi cross-sezionale – ha preso in considerazione il disegno degli studi, il rischio di bias e il reporting dei risultati dei trial randomizzati e controllati. “Ulteriori sforzi mirati al miglioramento degli standard per il reporting della validità degli studi clinici beneficerebbe molto del coinvolgimento e dell’input di Ema“, scrivono gli autori nel loro commento, auspicando anche una maggiore partecipazione da parte dei pazienti e dei medici. L’obiettivo da perseguire dovrebbe mirare a far sì che il rischio di bias nelle informazioni sui risultati degli studi sia presentato in modo intuitivo, di modo da informare al meglio le scelte dei pazienti e il processo decisionale condiviso all’interno della pratica clinica.

I punti principali della ricerca

I trentadue nuovi antitumorali considerati sono stati approvati da Ema sulla base di cinquantaquattro studi clinici; il 76% di questi (41) erano trial randomizzati e controllati, il 72% (39) sono stati accompagnati dalla pubblicazione dei risultati e sono stati quindi considerati dal gruppo di ricerca. Secondo l’articolo pubblicato su Bmj, solo un quarto circa degli studi (10) avrebbe incluso la sopravvivenza complessiva come endopoint primario; la maggior parte (74%, 29 studi) si sarebbe invece basata su misure indirette o surrogate dei benefici clinici, che secondo gli autori non permetterebbero di predire in modo affidabile la probabilità di sopravvivenza o di miglioramento della qualità della vita dei pazienti. La metà circa degli studi (19, 49%) sono stati considerati ad alto rischio di bias a causa di carenze nel disegno clinico, nelle modalità con cui sono stati condotti o nell’analisi dei risultati: un andamento che secondo gli autori potrebbe indicare che gli effetti dei prodotti sotto esame possano essere stati sovrastimati. In un terzo circa dei casi (10 prodotti, 31%), inoltre, i problemi riscontrati dall’ente regolatore non sarebbero in genere emersi a livello di letteratura scientifica.

Un punto di partenza per migliorare il design e la trasparenza degli studi

Nonostante i limiti della ricerca evidenziati dagli stessi autori (tra cui la valutazione di un “rischio” di bias, e non del bias stesso, e il fatto che la ricerca non abbia preso in considerazione i report degli studi clinici, che contengono maggiori dettagli sulle sperimentazioni rispetto alle pubblicazioni), il messaggio che emerge dallo studio è di prestare maggiore attenzione a questo rischio potenziale legato agli studi pilota usati per l’approvazione regolatoria e all’impatto che ne potrebbe derivare a livello della reale significatività dei benefici per i pazienti. “Le pubblicazioni scientifiche e i documenti regolatori dovrebbero rendere più semplice per pazienti e medici capire quanto bene sono stati condotti gli studi“, si legge nell’articolo.

Nel pezzo di commento, gli autori citano alcuni esempi di farmaci antitumorali di recente generazione, come il venetoclax per il trattamento del mieloma multiplo, che dopo essere stati approvati sulla base di endpoint surrogati hanno fatto osservare nella pratica clinica un peggioramento della sopravvivenza dei pazienti rispetto al gruppo di controllo. Un possibile bias per questo tipo di andamento potrebbe essere legato ai tempi di follow-up relativamente brevi per gli studi e all’intrinseca complessità dei farmaci antitumorali, che potrebbe rendere inevitabili alcuni bias a livello metodologico. Gli autori citano a riguardo lo strumento RoB2 per la stima del rischio di bias sviluppato dalla Cochrane Collaboration, che identifica cinque possibili livelli diversi: i bias derivanti dal processo di randomizzazione, quelli dovuti a deviazioni rispetto agli interventi programmati, quelli derivati da esiti mancanti, i bias dovuti alle misure degli esiti e quelli nella selezione dei risultati inclusi nel reporting. Anche l’effettiva capacità di condurre studi “in doppio cieco” sarebbe a volte discutibile, come conseguenza della comparsa di effetti collaterali specifici per un certo tipo d’intervento; questo tipo di bias sarebbe raramente discusso nelle pubblicazioni e nei documenti regolatori.

Un altro punto che secondo gli autori richiederebbe attenzione è la possibile diversa percentuale di pazienti che decidono di abbandonare uno studio a livello dei due bracci di sperimentazione e di controllo. Un andamento che potrebbe impattare sugli esiti dei trial clinici, come pure la scelta dei pazienti di cambiare trattamento. Il gruppo guidato da Huseyin Naci, ricercatore della London School of Economics, indica la difficoltà per pazienti e medici di trovare i dettagli metodologici chiave per giudicare l’affidabilità degli studi clinici, in quanto questi sarebbero attualmente frammentati tra molti documenti diversi, spesso all’interno di appendici supplementari.

Le possibili strategie per il futuro

Non mancano i suggerimenti per riunire e comunicare al meglio le informazioni sulla validità degli studi clinici, prima fra tutte la possibilità di includere negli European public assessment reports (Epar) pubblicati da Ema anche una valutazione formale del rischio di bias per tutti gli studi pilota utilizzati per l’approvazione di un nuovo antitumorale. Lo stesso tipo di valutazione potrebbe anche essere depositato nel Registro europeo degli studi clinici insieme ai risultati degli studi e accluso alle pubblicazioni scientifiche. Un’altra proposta avanzata dagli autori è che i ricercatori accademici possano dar vita – con il supporto di enti finanziatori privi di conflitti d’interesse – a un sito web indipendente in cui pubblicare analisi di routine sul rischio di bias per gli studi utilizzati per l’approvazione dei nuovi farmaci.

Qualità negli studi, non solo evidenze

Lo studio mostra che l’evidenza dei trial da sola non basta. La valutazione della qualità di questa evidenza è anche necessaria per assicurare che questi studi stimino in modo accurato gli effetti del trattamento“, si legge nell’editoriale che accompagna la ricerca, firmato dalle ricercatrici australiane Barbara Mintzes e Agnes Vitry.

Il problema della validità degli studi impatta anche sulle procedure di approvazione accelerata sempre più in voga per i farmaci innovativi e sugli alti prezzi che caratterizzano questo tipo di prodotti. Le due autrici citano anche altri studi che dimostrerebbero una frequente incapacità dei prodotti antitumorali, nella fase di monitoraggio post-approvazione, di confermare i benefici a livello di sopravvivenza dei pazienti o di miglioramento della qualità della vita.

L’editoriale ricorda anche le forti pressioni poste sugli enti di health technology assessment per consentire un rapido accesso dei pazienti ai nuovi trattamenti, che si devono confrontare con le sfide insite nella valutazione del reale profilo rischio-beneficio dei prodotti rispetto ai trattamenti già in commercio. “L’incertezza e l’esagerazione dell’evidenza che supporta l’approvazione dei medicinali antitumorali causa un danno diretto se i pazienti rischiano effetti avversi gravi o fatali senza un probabile beneficio, o rinunciano a trattamenti più efficaci e sicuri“, scrivono le autrici, che pongono anche il problema di sollevare false speranze e distogliere, ove necessario, dalle opportune cure palliative.