Le nuove frontiere delle terapie per l’emofilia sono state uno dei temi al centro del 47° Congresso della Società Italiana Ematologia (Roma 7-9 ottobre 2019).

L’emofilia, pur essendo una patologia rara ha elevatissimi costi sociali, per via della terapia e della disabilità correlata alla malattia. La terapia futura/attuale ha lo scopo di trattare il più precocemente ed adeguatamente il bambino emofilico in modo da garantire una vita normale. Certamente farmaci che richiedano poche somministrazioni, per via sotto-cute o addirittura per os, renderanno maggiore la compliance al trattamento e quindi l’efficacia dello stesso. È ormai avanzata la ricerca della terapia genica dell’emofilia, una terapia in grado di “guarire” il paziente emofilico in quanto ne induce la capacità di produrre il fattore carente – spiega Sergio Siragusa vice presidente della Società italiana di Ematologia, professore ordinario di Ematologia e direttore dell’UO di Ematologia del Policlinico di Palermo. – La terapia genica consiste nel trasferire, tramite un vettore virale, un gene codificato per il fattore in oggetto che, una volta “attecchito” nelle cellule del ricevente, induce le cellule stesse alla produzione del fattore carente. I vantaggi sono ovvi. Innanzitutto il paziente riprende a produrre il fattore carente e quindi non ha più bisogno della terapia sostitutiva. Poi, avendo una coagulazione normale non avrà più eventi emorragici. Di fatto non è più “un paziente”. Nell’ultimo anno sono anche stati presentati i risultati ad interim di studi di fase I/II sulla emofilia A, che hanno dimostrato che nel primo, secondo e terzo anno, rispettivamente il 71%, 84% e 86% dei pazienti non ha avuto alcun sanguinamento clinicamente rilevante».

Sergio Siragusa emofilia
Sergio Siragusa ha illustrato lo stato dell’arte e le prospettive future aperte dalla terapia genica per il trattamento dell’emofilia

L’emofilia è una patologia caratterizzata dalla carenza di un fattore della coagulazione.

«I fattori della coagulazione permettono, in situazioni fisiologiche, di arrestare un sanguinamento e favorire la guarigione delle ferite. La carenza dei fattori non indica che il sangue non coaguli, ma che tende a coagulare in ritardo rispetto al normale. Ciò determina una maggiore difficoltà nell’arrestare un sanguinamento, ad esempio, da traumi. Ma, nello stesso tempo piccole lesioni anche in zone interne, come le articolazioni, possono creare sanguinamenti cronici con conseguenti alterazioni di tipo funzionale. L’emofilia si manifesta nei primi mesi di vita, quando il bambino che ne è affetto inizia a camminare; piccoli traumi insignificanti possono determinare ecchimosi o emorragie intra-articolari. Le emorragie gravi (cerebrali o intestinali) sono fortunatamente poco frequenti ed è raro che un bambino abbia un evento emorragico grave come prima manifestazione della malattia – spiega Sergio Siragusa. – Se vi è carenza del FVIII l’emofilia viene definita “A” se del FIX viene definita “B”. Queste due forme sono le più frequenti, mentre la carenza di altri fattori (ad es l’XI) sono molto più rare. L’emofilia rientra tra le coagulopatie congenite rare, comprendente un gruppo eterogeneo di patologie ad elevato rischio di sanguinamento (spontaneo o provocato) per deficit funzionale o quantitativo dei vari elementi che costituiscono la cascata coagulativa».

La gravità della patologia viene definita non soltanto in base ai livelli di fattore (VIII o IX) circolante ma anche rispetto ai sintomi clinici (sede, frequenza dei sanguinamenti).

Classificazione delle emofilie in base ai livelli di fattore della coagulazione

I pazienti con emofilia grave presentano livelli di Fattore VIII o IX della coagulazione <1% e tendono a manifestare molto precocemente (entro i due anni di vita) sintomi emorragici spontanei (sanguinamenti articolari o muscolari).

Nei casi di emofilia moderata, i livelli dei fattori della coagulazione possono essere compresi tra il 2% ed il 5%; la sintomatologia emorragica può essere caratterizzata da frequenti sanguinamenti spontanei, oppure da emorragie dovute a traumi o interventi chirurgici.

Le forme lievi (con livelli di fattori > 5%) sono generalmente asintomatiche e di riscontro occasionale durante esecuzione di esami di routine.

Diffusione delle emofilie e delle coagulopatie

La prevalenza delle emofilie in Italia è 1 caso ogni 10.000 abitanti per l’emofilia A, che è la forma più diffusa, e 1 caso ogni 30.000 per l’emofilia B. 

«Le forme gravi di emofilia che richiedono una terapia continua sono circa 3.700 per l’emofilia A e circa 800 per l’Emofilia B, secondo i dati del rapporto ISTISAN 14/12 – aggiunge Sergio Siragusa. – Considerando anche le forme più rare ma che comunque richiedono terapia antiemorragica continua arriviamo a oltre 7.000 pazienti l’anno. In realtà alcune forme meno gravi di coagulopatia emorragica (ad esempio la malattia di von Willebrand) sono molto più frequenti, con una incidenza di circa 1/1.000 casi anno. Nella maggior parte queste forme non producono eventi emorragici e vengono diagnosticate solo in occasione di sanguinamenti anomali da procedure invasive. Le forme classiche di emofilia A e B sono esclusivamente legate al sesso maschile. Le altre coagulopatie sono invece distribuite uniformemente sui due sessi. Le donne possono essere “portatrici sane” di emofilia, e alcune volte possono anche avere eventi emorragici, prevalentemente lievi e spesso legati alla sfera ginecologica».

Attuali terapie standard per l’emofilia

L’obiettivo della terapia nei pazienti emofilici è non solo quello di ridurre il rischio di emorragia grave, ma piuttosto quello di prevenire sanguinamenti cronici che possano produrre l’artropatia emofilica (degenerazione delle articolazioni secondaria alla raccolta di sangue), con gravi ripercussioni sul normale sviluppo scheletrico del bambino.

Il trattamento consiste nell’infusione per via endovenosa del fattore carente (terapia sostitutiva). Tale trattamento può essere somministrato al bisogno/”on-demand” (cioè in caso di emorragia) oppure come prevenzione/profilassi di eventi emorragici. La profilassi resta l’approccio di prima scelta, specialmente per i bambini affetti da emofilia grave. La terapia sostitutiva è efficace e sicura e permette una qualità di vita analoga ai soggetti non affetti da emofilia. Inoltre, essendo prodotta con tecniche di bioingegneria (i fattori ricombinanti della coagulazione sono prodotti interamente in laboratorio e non derivano più da donatori) non è associata al rischio di trasmissione di patogeni (virus o prioni). Il limite principale a tale terapia è dato dalla via di somministrazione (endovena) e dalla durata del fattore sostitutivo in circolo che costringe a frequenti somministrazioni infrasettimanali. Ovviamente tale terapia non cura l’emofilia ma ne riduce solo il suo potenziale emorragico. Inoltre, la somministrazione di fattore VIII o IX esogeno (in pazienti che non ne producono) può determinare lo sviluppo di anticorpi nel ricevente (inibitori), annullando o riducendo il potere curativo del farmaco. 

I nuovi obiettivi delle terapie per l’emofilia

Negli ultimi anni, la ricerca medica nel campo dell’emofilia ha avuto come obiettivi principali:

  1. trovare un farmaco che abbia una durata prolungata (cosiddetti farmaci a lunga emivita);
  2. trovare una via di somministrazione semplice (per bocca o per via sottocutanea);
  3. trovare farmaci che correggano il difetto coagulativo in maniera alternativa alla infusione del fattore carente per evitare la formazione di inibitori;
  4. cercare di curare la malattia genetica.

Nell’ultimo ASH sono stati presentati i risultati dei principali studi condotti in queste linee di ricerca. In particolare, sono stati presentati i dati finali di fase III di una nuova molecola (emcizumab) somministrata settimanalmente per via sottocutanea che corregge il difetto coagulativo in maniera alternativa al fattore VIII (usando un anticorpo monoclonale che mima l’azione del fattore VIII). Tale farmaco si è dimostrato efficace nei bambini ed in soggetti di età > 12 anni, affetti da emofilia A grave con e senza inibitori in diversi scenari clinici. Il farmaco è già disponibile in Italia per i pazienti affetti da emofilia A con inibitori.

Studi in fase più precoce di sperimentazione (e quindi non disponibili a breve) stanno valutando altre molecole antiemorragiche, che agiscono al posto del fattore VIII; il vantaggio di tali terapie è la lunga emivita, la somministrazione non per via endovena, l’assenza di sviluppo di inibitori.

Sicuramente l’aspetto più importante è stato la presentazione, per la prima volta, di una terapia genica per l’emofilia A. Infatti sono stati presentati i risultati di 2 studi di fase I/II in cui (con diverse metodologie) si è somministrato, tramite un vettore con trofismo per le cellule epatiche, un fattore VIII umano modificato. Ad un follow-up di quasi due anni, i pazienti sottoposti a terapia genica hanno iniziato a produrre e mantenuto un valore di FVIII al di sopra della soglia necessaria per una corretta emostasi, senza sviluppare complicanze significative. Tale risultato è stato recentemente ottenuto anche con il fattore IX. Di fatto questa rappresenta la prima vera cura dell’emofilia.

Dalla terapia sostitutiva alla terapia genica

«La ricerca per la terapia dell’emofilia ha subito negli ultimi anni una crescita vertiginosa, aprendo scenari del tutto nuovi ed estremamente vantaggiosi per i pazienti. Sinora la terapia si è basata sulla somministrazione del fattore carente (VIII o IX), per via endovenosa, circa 2/3 volte la settimana, secondo il fenotipo (sintomatologia) emorragico. La terapia tradizionale è effettiva nel ridurre il rischio di sanguinamento ma richiede personale (anche familiare) addestrato alla somministrazione di farmaci endovena ed è particolarmente scomodo per i pazienti (specie i più piccoli), determinando un peggioramento della qualità di vita. Inoltre tale terapia non mantiene costantemente alti i valori del fattore carente nel sangue; quindi possono verificarsi emorragie, specie quelle articolari che compromettono nel tempo la funzionalità dell’articolazione» – puntualizza Sergio Siragusa. 

«La ricerca si è pertanto basata (a partire dagli anni Novanta) sullo sviluppo di fattori ricombinanti che di fatto annullino il rischio infettivo. Gli emofilici anziani, trattati in passato con fattore VIII da plasma senza specifici controlli virali, hanno sviluppato infezioni da HIV ed epatite B e C. Adesso tale rischio è annullato (anche con i nuovi prodotti da plasma derivati) ma ciò ha determinato un forte impulso nella ricerca di farmaci ricombinanti, in cui il fattore VIII viene prodotto in laboratorio. Nella prima decade degli anni 2000 si è iniziato a lavorare su prodotti che avessero una maggiore emivita farmacologica, prodotti cioè che, rimanendo in circolo più a lungo, richiedono minori infusioni settimanali e garantiscono una emostasi più fisiologica. Tali prodotti, oggi in commercio, non sono solo più pratici, ma mantenendo un livello di Fattore VIII circolante più a lungo, riducono anche il rischio di emorragia (specie articolare) permettendo ai pazienti di svolgere tutte le attività di un soggetto normale. Infatti, oggi la terapia permette ai nostri pazienti di svolgere attività fisica, lavorativa e relazionale regolare» – continua Siragusa.

«Le vere novità sono arrivate nella seconda decade del 2000 quando si sono sviluppati prodotti antiemorragici non basati sulla somministrazione del fattore carente ma sull’uso di meccanismi alternativi, con attivazione degli altri fattori della coagulazione che sono normali nel paziente emofilico. Tale concetto si basa sul fatto che il Fattore VIII, ad esempio, svolge la sua funzione antiemorragica attivando altri fattori della coagulazione. La ricerca ha pertanto sviluppato molecole che, pur non essendo il fattore VIII, agiscono come il fattore carente. Tale aspetto, è necessario anche per trattare i pazienti emofilici che sviluppano, come complicanza alla terapia con FVIII, anticorpi contro il fattore stesso (inibitori), annullandone l’efficacia. Circa il 20% dei pazienti trattati con fattore VIII può infatti sviluppare un anticorpo contro il fattore carente che, di fatto, rende la terapia sostitutiva poco efficace. Una terapia by-passante (che agisce come il fattore carente) di fatto permette il trattamento di questi pazienti ripristinando una coagulazione normale. I nuovi farmaci in tal senso hanno anche la praticità di essere somministrati per via sottocutanea, con una maggiore compliance del paziente. Per ultimo, ma non da ultimo, è ormai avanzata la ricerca della terapia genica dell’emofilia, una terapia in grado di “guarire” il paziente emofilico in quanto ne induce la capacità di produrre il fattore carente» – aggiunge Siragusa.

Terapia genica per l’emofilia

«La terapia genica, non solo per l’emofilia, consiste nel trasferire, tramite un vettore virale, un gene codificato per il fattore in oggetto che, una volta “attecchito” nelle cellule del ricevente (generalmente cellule epatiche), induce le cellule stesse alla produzione del fattore carente per cui il paziente “guarisce” dall’emofilia. I vantaggi sono ovvi; innanzitutto il paziente riprende a produrre il fattore carente e quindi non ha più bisogna della terapia sostitutiva. Poi, avendo una coagulazione normale, non avrà più eventi emorragici. Di fatto non è più “un paziente” – prosegue Sergio Siragusa. – I primi studi ormai datati da diversi anni, sono stati condotti in pazienti affetti da emofilia B, cioè carenti del fattore IX. Si è scelto il fattore IX innanzitutto perché si tratta di un gene piccolo e facilmente manipolabile o riproducibile per la terapia genica. In secondo luogo, perché questa forma di emofilia può diventare asintomatica anche con un piccolo incremento del FIX circolante. I risultati sono stati molto incoraggianti nei primi pazienti trattati che di fatto sono diventati non più dipendenti da terapia sostitutiva. Nell’ultimo anno sono anche stati presentati i risultati ad interim di studi di fase I/II sulla emofilia A che hanno dimostrato che nel primo, secondo e terzo anno, rispettivamente il 71%, 84% e 86% dei pazienti non ha avuto alcun sanguinamento clinicamente rilevante». 

Possibili pericoli collegati alla terapia genica per l’emofilia

«I rischi della terapia genica sono essenzialmente di due tipi; uno a breve sulla tossicità epatica da infezione virale e l’altro, tardivo, su possibili sviluppi di neoplasie. Negli studi sinora condotti, lievi incrementi dei markers di funzionalità epatica sono stati ben controllati da terapia steroidea. Quindi non sembra che questo possa costituire una seria controindicazione. Si è più cauti sulla possibilità di seconde neoplasie (ad esempio da epatocarcinoma); per questo sono necessari follow-up più lunghi ma al momento non sembra che nessuna condizione clinico/laboratoristica sia suggestiva di tale evento. Inoltre, studi preclinici non hanno dimostrato un incremento dell’incidenza di seconde neoplasie. Per via prudenziale tali studi non sono al momento condotti su bambini. Esiste poi la possibilità che l’incremento di produzione del fattore carente possa non essere sufficiente dal punto di vista clinico» – conclude Sergio Siragusa.

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