Nel precedente articolo di questa mini-collana sulla digital health (pubblicato sul NCF di settembre 2025, N.d.R.) abbiamo affrontato il tema della tassonomia e compreso cosa intendiamo per “tecnologie digitali per la salute” (DHT) e “dispositivi medici digitali” (DMD), in particolare per quanto riguarda gli strumenti che si interfacciano e/o vengono gestiti dai pazienti. Per questi prodotti è fondamentale la componente tecnologica, ma soprattutto per i prodotti che mirano ad avere funzioni diagnostiche, di monitoraggio o terapeutiche è importante documentarne l’effettiva utilità nel contesto medico-clinico. Come farlo, e con quali livelli di rigore metodologico? In un’intervista condotta dal presidente Gualberto Gussoni, ne parliamo con Stefania Frasson, Erminio Bonizzoni e Paolo Primiero, rispettivamente Direttore Scientifico, Lead Biostatistician e Segretario Generale della Fondazione RIDE2Med, nata proprio con la missione di promuovere e gestire progetti di ricerca clinica dedicati alle DHT.

Nel mondo dei farmaci, per l’immissione in commercio di una nuova molecola devono essere eseguite sperimentazioni cliniche adeguate e rigorose. Forse, però, questo concetto è meno consolidato nel settore delle DHT. Perché è invece così importante avere ben presente questi aspetti?
SF: «Negli ultimi anni, le DHT (app mediche e per il benessere, dispositivi indossabili, piattaforme di telemedicina, etc.) hanno conosciuto una significativa accelerazione, spinta dalla trasformazione digitale in atto in tutti i campi della nostra vita, dall’emergenza pandemica e dalla crescente domanda di assistenza personalizzata. Stiamo assistendo a una sorprendente rapidità di innovazione tecnologica capace di rendere questi prodotti sempre più performanti e user-friendly, e a un sempre maggior ruolo abilitante della intelligenza artificiale, ma questo non deve mettere in secondo piano il fatto che se utilizzo uno strumento digitale per ottenere un vantaggio in termini di salute (per diagnosi, monitoraggio, prevenzione o terapia), devo dimostrare che quello strumento funziona e produce un beneficio. E dimostrarlo in maniera simile a quanto normalmente si fa con un farmaco, o con un biomarcatore, o con un nuovo macchinario diagnostico “analogico”. In altre parole, dobbiamo evitare di applicare quello che un Editoriale pubblicato su Lancet qualche anno fa chiamò “eccezionalismo digitale”[1], cioè il principio per cui i prodotti digitali per la salute, un po’ perché ragionevolmente “meglio tollerati” di un farmaco, un po’ perché rapidamente obsolescenti, un po’ perché in genere possono contare su minori risorse economiche da parte di chi li sviluppa, possano avere percorsi di validazione significativamente più “light”. Che ciò sia importante ci è stato confermato da un’indagine che abbiamo condotto lo scorso anno (fra medici, pazienti, farmacisti, rappresentanti dell’industria, etc.) e secondo la quale la disponibilità di evidenze cliniche solide è il fattore considerato più importante per l’utilizzo/prescrizione di una tecnologia digitale per la salute».[2]
Compresa l’importanza della produzione di evidenze sperimentali per le DHT, come agire?
EB: «Va innanzitutto detto che la famiglia delle DHT è composta da strumenti che da un punto di vista strutturale, ma soprattutto della destinazione d’uso, possono presentare significativi gradi di eterogeneità, ed è quindi difficile rappresentare tutti gli scenari possibili. Pensiamo, per esempio, a un software che sfrutta l’AI e che si abbina all’ecografia standard per migliorare le diagnosi. In questo caso dovrò disegnare un progetto che documenta che quel test è accurato/sensibile/specifico per l’obiettivo diagnostico che si pone. Se invece intendo validare un’app da utilizzare come supporto terapeutico per i pazienti con depressione, dovrò dimostrare che i pazienti che usano l’app hanno un miglioramento del tono dell’umore misurato secondo i parametri (test psicometrici etc.) clinicamente accettati e validati. Se dovessimo però trovare un minimo comun denominatore tra i differenti possibili scenari, possiamo dire che in tutti i casi è auspicabile che la nuova tecnologia venga confrontata con qualcos’altro (generalmente la “usual care”) e si arrivi a dimostrare che il suo utilizzi determini un vantaggio significativo anche in termini statistici, così come siamo abituati a fare da quando si è affermata la Evidence Based Medicine».
Facendo qualche esempio concreto, forse potremmo concentrarci sulle “terapie digitali” (DTx), che tanta curiosità stanno suscitando.
PP: «Le DTx, già disponibili in numerosi Paesi e che ci auguriamo lo possano presto e diffusamente essere anche per i pazienti italiani, sono strumenti terapeutici veri e propri per i quali la produzione di evidenze sperimentali robuste non è solo auspicabile, ma un prerequisito fondamentale per la loro approvazione, adozione clinica e integrazione nei percorsi assistenziali. Secondo la definizione ISO/TR 11147:2023, supportata e orientata dalla Digital Therapeutics Alliance, le DTx sono “software per la salute che hanno l’obiettivo di trattare o alleviare una malattia, un disturbo, una condizione clinica o una lesione generando ed erogando un intervento medico che ha un impatto terapeutico positivo e dimostrabile sulla salute di un paziente”. [3] Questa definizione comporta una serie di implicazioni ai fini della qualifica di un software per la salute come DTx: essendo il software destinato a uso medico, l’applicazione è classificata come dispositivo medico (software as medical device), e deve essere sottoposta a certificazione/marcatura CE secondo la normativa di riferimento; l’intervento medico deve essere generato direttamente dal software; l’impatto terapeutico deve essere positivo e rappresentare un beneficio clinico, dimostrabile e dimostrato secondo le modalità accettate dalla comunità scientifica e dalla autorità regolatoria, e che consideri sia efficacia che tollerabilità».
Fatte queste premesse, come potrebbe essere strutturato il percorso di validazione clinica di una DTx?
SF: «Senza la pretesa di proporre un modello fisso e standardizzato, in un contesto in rapida evoluzione tecnologica, culturale e metodologica, possiamo probabilmente suddividere il processo attraverso il quale viene prodotta la clinical evidence necessaria per lo sviluppo di una DTx in 3 principali fasi: fattibilità, pilota e confirmatoria/pivotal (Tabella 1)».
| FASE | CARATTERISTICHE | |
| 1 | Fattibilità | Effettuata per acquisire le informazioni preliminari sul dispositivo al fine di pianificare le ulteriori fasi di sviluppo, comprese le modifiche di progettazione. È la fase in cui si valuta l’accettabilità e l’usabilità della candidata DTx su un numero limitato di persone, preferibilmente pazienti. |
| 2 | Pilota | Genera l’ipotesi di beneficio clinico per la candidata DTx. Si basa su uno studio RCT pilot che non ha la finalità di dimostrare il beneficio, quanto di ipotizzarlo in modo rapido ed economico. Viene condotta su un numero di pazienti e per tempi di trattamento limitati, con endpoint spesso auto-riferiti dal paziente. Lo scopo è consentire al produttore di decidere sulla progressione del progetto alla successiva fase, che presenta la percentuale prevalente di tempi e costi dell’intero sviluppo. In alcuni casi questa fase pilota viene omessa e il produttore preferisce realizzare la fase pivotal. |
| 3 | Confirmatoria/ Pivotal | Consente la verifica del beneficio clinico richiesta per certificare e qualificare una DTx. Tale verifica prevede l’esecuzione di indagini (spesso definite pivotal) progettate e condotte secondo modelli (tipicamente RCT) e modalità in grado di fornire una prova della efficacia e della tollerabilità. Le caratteristiche di tali prove devono essere approfondite in termini di qualità, di quantità e – in modo specifico per le DTx – di contesto sociale, sanitario e culturale nel quale vengono realizzate. |
Quali tipologie di studio sono più adatte a fornire prove di adeguata qualità per una DTx?
EB: «Gli studi clinici randomizzati e controllati (RCT) sono da tempo considerati il “gold standard” per la generazione delle prove sugli interventi sanitari, per la loro capacità di controllare i bias dovuti ai fattori di confondimento e di assicurare pertanto validità interna dei risultati ottenuti. Gli studi confirmatori o pivotal hanno come riferimento metodologico il disegno RCT, con un campione in grado di fornire la potenza statistica adeguata a verificare le differenze ipotizzate fra i diversi trattamenti. La durata del trattamento deve essere coerente con l’uso previsto della terapia (generalmente, settimane nel caso in cui la DTx eroghi una terapia cognitivo-comportamentale, mesi nel caso di educazione sanitaria e supporti)».
È però significativa anche la quantità delle prove. Quanti studi potrebbero servire per una DTx?
PP: «Un singolo risultato clinico sperimentale, non supportato da altre prove indipendenti, non è solitamente considerato un adeguato supporto scientifico per una conclusione di efficacia. Nello specifico campo delle DTx, e più in generale in quello delle DHT, il tema di quanti debbano essere gli studi necessari per la certificazione ed eventualmente per l’accesso a meccanismi di rimborso da parte dei Servizi Sanitari nazionali è ampiamente dibattuto. In Italia è al momento al vaglio del Parlamento un disegno di legge che prevede che, per poter essere inserita nel sistema dei Livelli Essenziali di Assistenza e quindi rimborsata, una DTx sia stata oggetto di almeno due studi clinici con evidenze di alta qualità».
Vi sono altre sfide metodologiche nello sviluppo delle DTx che vale la pena sottolineare?
EB «Possiamo citarne alcune. Le DTx spesso agiscono su endpoint complessi, a volte difficili da quantificare oggettivamente e che richiedono strumenti validati di misurazione, talvolta auto-riferiti. Inoltre, l’aderenza all’intervento è un elemento critico: a differenza dei farmaci, dove l’assunzione può essere tracciata in modo diretto, nelle DTx il coinvolgimento del paziente è una componente attiva, variabile e per molti versi ancora più decisiva nelle dinamiche del trattamento. È quindi essenziale integrare nei disegni sperimentali misure di engagement, dropout e fattori motivazionali, per interpretare correttamente l’efficacia osservata. Un altro aspetto metodologico riguarda i “bias digitali”: fattori legati al design dell’interfaccia, alla user experience o al livello di alfabetizzazione digitale possono influenzare i risultati indipendentemente dall’efficacia terapeutica dell’intervento. Questi elementi devono essere identificati, controllati e, ove possibile, standardizzati. Infine, come per le altre tecnologie sanitarie, anche per le DTx esiste un tema di generalizzabilità delle informazioni ottenute negli studi sperimentali, e quindi dell’opportunità di abbinare a questi ultimi le evidenze prodotte in contesti real-world».
Da un punto di vista regolatorio, abbiamo esperienze esistenti?
PP: «Le DTx si trovano all’intersezione tra medicina e tecnologia, e questo comporta una crescente attenzione da parte degli Enti regolatori. La FDA ha già approvato diverse DTx, richiedendo evidenze cliniche di efficacia simili a quelle dei farmaci, pur con qualche adattamento nel disegno sperimentale. In Europa, il regolamento MDR impone l’obbligo di dimostrazione di “beneficio clinico” come condizione per l’immissione in commercio. L’esperienza di enti come NICE nel Regno Unito, che ha introdotto un framework specifico per valutare evidenze e impatto economico delle tecnologie digitali, sottolinea l’importanza di disporre di una gerarchia delle evidenze adatta alla specificità delle DTx. Per la realtà italiana, modelli vicini e almeno in parte mutuabili potrebbero poi essere quelli del sistema fast-track DiGA della Germania o del sistema PECAN in Francia».
Quale messaggio conclusivo possiamo lasciare ai lettori?
SF: «Le DHT e in particolare le terapie digitali rappresentano una nuova frontiera che richiede una rivalutazione critica dei paradigmi tradizionali di produzione dell’evidenza. Se da un lato è necessario adattare le metodologie degli studi ai vincoli e alle opportunità del digitale, dall’altro è imprescindibile mantenere il principio fondante della medicina basata sull’evidenza: nessun intervento dovrebbe essere adottato senza una solida dimostrazione di efficacia, sicurezza e valore per il paziente. Solo con una sintesi rigorosa tra innovazione e scienza sarà possibile, per esempio, integrare una DTx nei percorsi terapeutici con la stessa fiducia e responsabilità con cui oggi si prescrive un farmaco. Questi principi, questi obiettivi e questo metodo sono alla base della missione che Fondazione RIDE2Med si propone di realizzare».
Bibliografia
- Editorial, Is digital medicine different?, Lancet 2018; 392: 95
- Cinquepalmi L. et al., Adozione delle terapie digitali in Medicina, in Gussoni G., Pomero F. (Editors) “Terapia digitali, una necessità per l’Italia”, Tendenze Nuove, 2024; Numero Speciale 1/2024: 133-148
- Definition ISO/TR 11147:2023, https://www.iso.org/obp/ui/ru/#iso:std:iso:tr:11147:ed-1:v1:en







