La ricerca universitaria, spesso finanziata da fondi pubblici, può trovare sbocchi applicativi attraverso la sottoscrizione di accordi di licensing con aziende interessate alla commercializzazione dei prodotti. La sostenibilità sociale di questo tipo di approccio allo sfruttamento dei risultati della ricerca in campo biomedico è stata al centro di uno studio della Netherlands Federation of University Medical Centres (NFU), l’associazione che raggruppa le università mediche olandesi che ha pubblicato il rapporto “Ten principles for Socially Responsible Licensing“.
In Olanda nel 2017 si sono spesi circa 2 miliardi di euro per farmaci con un prezzo superiore ai 1000 €, pari al 9% del totale della spesa per cure mediche specialistiche. Molti di questi trattamenti, sottolinea il rapporto, non possono venire immediatamente rimborsati a causa del prezzo elevato.
Valorizzare su scala globale i risultati della ricerca accademica
La valorizzazione dei risultati della ricerca universitaria, oltre che delle attività educative e di ricerca tipiche delle università mediche, passa inevitabilmente dal rendere accessibili ai pazienti nel tempo più breve possibile i nuovi farmaci prodotti dalla ricerca stessa. Un’obiettivo, scrive il Chair di NFU, Willy Spaan, che spesso passa attraverso la collaborazione con aziende farmaceutiche e biotech, in grado di ottimizzare le fasi più avanzate di sviluppo e che hanno un più facile accesso ai mercati. Non andrebbe però mai perso di vista l’interesse sociale della ricerca svolta in ambito universitario, motivo per cui NFU ha sviluppato quelli che appaiono essere uno dei primi esempi di principi di responsabilità sociale applicati da un ente publico interessato a rendere disponibili al pubblico gli esiti del proprio lavoro. Obiettivo che si estrinseca nel rendere disponibile i nuovi trattamenti terapeutici nati nelle università mediche olandesi ad un prezzo “ragionevole”.
“I principi derivano direttamente dal dibattito sui farmaci, ma potrebbero essere applicati anche in altri contesti, per esempio in agricoltura o nell’information technology. Anche qui vi sono considerazioni di responsabilità sociale, ed è desiderabile che i frutti della ricerca accademica finanziata dal pubblico vadano a beneficio effettivo della società“, si legge nel rapporto.
L’iniziativa di NFU è il risultato visibile di un lavoro che ha visto il supporto al governo olandese sul tema del licensing, l’istituzione di un gruppo di lavoro misto con altri attori interessati al problema e la realizzazione di una consultazione online. Nelle intenzioni del NFU, l’iniziativa dovrebbe presto espandersi anche a livello internazionale, sulla base del fatto che è necessario un salto di scala affinché si possa effettivamente recepire il suo impatto e giungere a una maggiore trasparenza e accettabilità dei prezzi. Solo una minima parte dei medicinali disponibili sul mercato olandese, inoltre, sono – in tutto o in parte – derivati da ricerche condotte dalle locali università e da esse brevettate.
L’interesse pubblico è il fine ultimo
Proprio i brevetti costituiscono la base su cui costruire dapprima uno spin-off universitario, secondo lo schema tipico seguito dagli uffici di Knowledge transfer (Kto) delle università olandesi. È attraverso questo primo embrione d’azienda che vengono poi ricercati i partner privati che possono supportare le successive fasi di sviluppo.
Gli accordi di licenza che descrivono tali partnership pubblico-privato dovrebbero sempre includere la percentuale del profitto netto derivante dallo sfruttamento economico delle invenzioni garantito all’università e all’inventore. Le università, a loro volta, possono restituire tali fondi a beneficio della comunità utilizzandoli per il finanziamento delle varie attività educative, di ricerca e di cura dei pazienti. Proprio in questo consiste il primo principio, che deve essere perseguito in modo tale da comunicare in modo chiaro e trasparente la scelta delle linee di ricerca entrate in questo tipo di canale di sviluppo e i benefici che ne possono derivare per la società.
Il secondo principio prevede che le università possano continuare a utilizzare i risultati delle loro ricerche, anche a fini educativi e di ricerca, di modo da supportare in modo aperto la crescita del dibattito scientifico a livello internazionale. I ricercatori accademici dovrebbero quindi mantenere la libertà di continuare le proprie ricerche, pubblicando in tempi ragionevoli e trasmettendo attraverso l’insegnamento i materiali e le tecniche essenziali da essi sviluppate.
La scelta del partner privato
Non meno importante è la scelta del partner privato con cui collaborare, affrontata nel terzo principio. Esso dovrebbe impegnarsi in modo concreto allo sviluppo della tecnologia data in licenza dall’ente pubblico, e non limitarsi ad acquisirne i diritti per poi lasciarla dimenticata in un cassetto. Le università sono quindi chiamate a valutare l’esperienza e i mezzi finanziari dei potenziali partner, eliminando in partenza le società note per essere “patent troll”, cioè implicate nel fenomeno (in forte ascesa, soprattutto negli Usa) di minacciare cause per infrazione brevettuale al fine di ottenere risarcimenti o accordi vantaggiosi.
Sempre all’interno delle verifiche preliminari cade anche la valutazione dei possibili conflitti tra gli obiettivi core dell’università e quelli delle aziende possibili partner. Il quarto principio sottolinea l’importanza dell’affidabilità e trasparenza dei possibili soggetti con cui interagire, che andrebbero conosciuti a 360 gradi per meglio valutarne le effettive motivazioni e desiderio di concludere l’accordo di licensing. Non si dovrebbe prescindere neanche sul livello della legislazione del paese di appartenenza del partner, che non dovrebbe essere inferiore a quella olandese.
La tutela degli interessi dei terzi
Il quinto principio affronta il problema della tutela delle conoscenze tradizionali o locali, che non devono entrare all’interno dei diritti di proprietà intellettuale per i quali vengono siglati gli accordi publico-privato, se non previa conclusione di altri accordi con i loro titolari. Rientra in questo campo, ad esempio, la conoscenza genetica regolata dal protocollo di Nagoya sull’accesso alle risorse genetiche e l’equa condivisione dei benefici derivanti (siglato nel 2010, si veda qui), o quella relativa a una conoscenza tradizionale a lungo applicata a livello di società, comportamenti, agricoltura, educazione o sostenbilità.
I partner potenziali devono venire sempre resi edotti di tali interessi prima di chiudere gli accordi di licenza, specifica il sesto principio, come pure delle altre parti eventualmente coinvolte nella fase di scoperta della tecnologia oggetto della collaborazione (come ad esempio gli enti finanziatori). L’università, infatti, resta comunque sempre vincolata ai precedenti accordi, come ad esempio la concessione di grant di ricerca. Il suggerimento è di utilizzare la forma degli accordi quadro per includere tutte le parti interessate.
Autorizzare solo gli usi desiderati
“La protezione (brevettuale, ndr) e il licensing della conoscenza è uno strumento per arrivare ad accordi di business. Non è di per sé una fine“, sottolinea il settimo principio. Le università dovrebbero quindi, a ogni stadio della trattativa, riflettere su quanto essa corrisponda ai fini statutari che l’istituzione è chiamata a perseguire, senza estendere la protezione oltre il dovuto o limitare la possibilità di ulteriori sviluppi della ricerca a fronte della domanda di un pagamento per l’applicazione della conoscenza. Altri punti di riflessione dovrebbero includere i reali obietti per cui il partner vorrebbe continuare lo sviluppo, escludendo quelli che potrebbero causare danno alla società o essere indirizzati a trattamenti per scopi non terapeutici. Il documento di NFU sottolinea l’importanza, a questo riguardo, d’includere sempre nell’accordo di licenza tutti i dettagli relativi agli usi non permessi della tecnologia, e di prestare attenzione anche a dettagli legali – quali ad esempio il foro competente – che possano impedire la validità di tali clausole.
Parimenti, andrebbero considerati anche i possibili sviluppi e applicazioni future alla luce degli interessi commerciali del partner industriale, indica l’ottavo principio. Un esercizio di sottile equilibrio tra la necessità di giungere a un accordo non troppo stretto e vincolato (poco appetibile per la parte privata) né troppo ampio (che andrebbe a detrimento della parte pubblica, che ad esempio non potrebbe sviluppare oltre la tecnologia per applicazioni in altri settori). L’accordo di licenza dovrebbe anche specificare le regioni o i paesi in cui il partner industriale è atteso portare a mercato l’oggetto dell’accordo, e come gestire di diritti di licenza già in essere o futuri. Quest’ultimo punto è particolarmente delicato e difficile da affrontare, vista la difficoltà di prevedere quale possano essere i futuri sviluppi di un progetto, e quale il modo migliore per giungere al suo sfruttamento pratico. In campo biomedico, ad esempio, può essere importante assicurarsi di mantenere un accesso al materiale genetico e ai biomarcatori.
Incoraggiare l’accesso al mercato
Ove possibile, è anche opportuno specificare come operare per giungere all’accesso al mercato. Il nono principio suggerisce di fornire indicazioni all’interno dell’accordo di come proseguire nello sviluppo del prodotto, o di concederne l’uso a un prezzo ridotto nei paesi in via di sviluppo. NFU suggerisce anche il possibile ricorso a licenze non esclusive in alcuni paesi, o semi-esclusive solo per certi settori applicativi, o la promozione di un accesso facilitato in contesti di ricerca.
Il decimo principio tocca il punto forse più spinoso: l’accordo di licenza dovrebbe specificare che la definizione del prezzo del prodotto finale dovrebbe essere tale da assicurarne l’accessibilità. I criteri di giudizio dovrebbero essere considerati in base al singolo contesto e al momento specifico in cui il prodotto entra in mercato, piuttosto che fissarli aprioristicamente. In tal modo, secondo NFU, l’accordo di licenza consentirebbe maggiori salvaguardie rispetto alla fissazione di un prezzo eccessivo e non sostenibile. L’accordo dovrebbe anche prevedere clausole e condizioni che rendano di fatto inapplicabile questa condizione.