La domanda se l’intelligenza artificiale prenderà in futuro il posto dei medici è stata dibattuta dalle colonne dell’ultimo numero del British Medical Journal (Bmj). Il crescente trend in questa direzione è sempre più evidente, considerati da un lato il numero sempre maggiore di applicazioni di deep-learning in grado di supportare i medici sui quesiti diagnostici e terapeutici, dall’altro la penuria di nuovi camici bianchi che nei prossimi anni potrebbe mettere a dura prova molti sistemi sanitari, tra cui quello italiano. Per non parlare dei costi di formazione e gestione molto minori di un robot rispetto a un medico in carne ed ossa, che potrebbero rappresentare un target molto allettante per i governi alle prese con la pressante necessità di far quadrare i conti delle spese sanitarie.
Ai software diagnostici, poi, si aggiungono anche i robot chirurgici, che già sono in grado di sostituire l’uomo in molte operazioni complesse. Il primo robot ad aver passato, nel novembre 2017, l’esame nazionale di abilitazione alla professione medica è il cinese Xiaoyi, che ha totalizzato un punteggio (456) di 96 punti maggiore del minimo di legge (qui l’articolo di China Daily).
Algoritmi che apprendono velocemente
La rivista inglese ha messo a confronto le opinioni di diversi esperti per meglio inquadrare il possibile ruolo futuro dell’intelligenza artificiale in medicina. Secondo il responsabile vicario dell’Istituto di Medicina traslazionale del Politecnico di Zurigo, Jörg Goldhahn, le tecnologie AI potrebbero risultare più accurate dell’uomo sia nella capacità diagnostica sia in quella correlata alle procedure chirurgiche.
“L’idea che i medici odierni possano avvicinarsi a questi livelli di conoscenza mantenendosi aggiornati sulla ricerca medica, mantenendo uno stretto contatto coi propri pazienti, è un’illusione, non da ultimo per il gran volume di dati”, è l’opinione dell’esperto svizzero. Sull’altro versante, invece, gli algoritmi hanno una “capacità quasi illimitata” di apprendere, oltretutto a una velocità impensabile per gli umani. Basti pensare che la letteratura scientifica si arricchisce ogni giorno di migliaia di articoli, che solo l’intelligenza artificiale è in grado di “leggere” rapidamente in modo esaustivo, e senza soffrire dei possibili bias culturali tipici dell’essere umano e delle organizzazioni in cui opera.
La prospettiva delineata da Jörg Goldhahn richiama il modello dei learning healthcare systems di cui abbiamo parlato recentemente (qui il link all’articolo), ulteriormente arricchito dall’enorme mole di dati alimentati dagli smart devices, dalle cartelle cliniche elettroniche e dalle piattaforme di social media, sempre più in grado di profilare le persone anche dal punto di vista della loro salute e malattia.
I primi campi applicativi dell’AI in medicina, già in essere, riguardano l’analisi delle immagini diagnostiche e il riconoscimento di pattern particolari. A questo dovrebbe far seguito, secondo l’esperto zurighese, una fase di proof of concept che ne dimostri il reale valore per i pazienti e la società, sulla base della quale sarebbe poi possibile espanderne sempre più l’uso. Fino alla conseguenza estrema: vedere i medici umani diventare assistenti dei sistemi di intelligenza artificiale.
Dottori obsoleti e il “tallone d’Achille” della fiducia del paziente
“I dottori come li conosciamo diventeranno obsoleti – è l’opinione espressa da Goldhahn -. I sistemi AI-driven sono universalmente disponibili e possono anche monitorare i pazienti da remoto”. Secondo l’esperto del Politecnico di Zurigo, anche il rapporto fiduciario che spesso caratterizza la relazione tra medico e paziente potrebbe in realtà rivelarsi essere un “tallone d’Achille” a causa dei possibili bias e conflitti d’interesse relazionali che sarebbero invece assenti nella relazione tra paziente e medico-robot.
Questi ultimi potrebbero risultare particolarmente utili per aiutare a portare alla luce condizioni che potrebbero generare un certo senso di vergogna nei confronti del medico in carne ed ossa; i pazienti più giovani o con problemi più lievi, inoltre, potrebbero privilegiare la correttezza della diagnosi rispetto all’empatia o alla continuità del rapporto di cura che si crea tipicamente col proprio medico.
Il fatto, poi, che i sistemi AI potrebbero comunque soffrire di bias insiti nella progettazione potrebbe essere facilmente superato, scrive Goldhahn, grazie a review indipendenti e iterazioni successive.
L’importanza della relazione umana
Di opinione opposta sono invece Vanessa Rampton (McGill Institute for Health and Social Policy di Montréal, Canada) e Giatgen Spinas dell’ospedale universario di Zurigo. La conoscenza tecnica non basta a definire e curare una malattia; sarebbe proprio la capacità innata di creare relazioni umane che fa la differenza, secondo i due esperti, qualcosa che i robot non saranno mai in grado di replicare. Fiducia, rispetto, coraggio e responsabilità sarebbero elementi tipici dell’essere umano non facilmente replicabili dalle macchine, si legge nel commento.
Da loro punto di vista, quindi, i medici in carne ed ossa non sarebbero ancora a rischio di estinzione e manterrebbero la capacità unica di avere una visione olistica del paziente, non limitata ai meri fattori diagnostici. I fattori economici, culturali e sociali, infatti, hanno spesso un impatto altrettanto importante su come il paziente percepisce la malattia e la cura, e la relazione fiduciaria che si crea con il medico può risultare particolarmente importante per la diagnosi di situazioni complesse, in cui i sintomi possono essere più difficili da decifrare, o nel caso di rischio di gravi effetti avversi derivanti dalla terapia. La domanda corretta da porsi sarebbe quindi se le aziende produttrici di tecnologia, i ricercatori, i manager ospedalieri e gli universitari siano stiano valutando in modo corretto l’impatto dell’intelligenza artificiale sui pazienti.
Medico e paziente: due esseri umani che costruiscono una relazione consapevoli della reciproca posizione di esseri mortali, vulnerabili a salute e malattia. “I computer non sono in grado di prendersi cura dei pazienti nel senso di mostrare attenzione o preoccupazione per l’altro in quanto persona, perché non sono persone e non si preoccupano di niente. I robot sofisticati potrebbero mostrare empatia come una questione di forma, esattamente come gli umani si possono comportare in modo educato nelle situazioni sociali, pur rimanendo emozionalmente non coinvolti in quanto stanno svolgendo solo un ruolo sociale”, scrivono i due esperti.
Secondo Rampton e Spinas, i robot non sarebbero in grado di sostituire i medici per quanto riguarda la capacità di comprendere le preoccupazioni del paziente riguardo a come la malattia impatta sulla capacità di mantenere una buona qualità della vita.
Chi vorrebbe ricevere una diagnosi infausta da un robot, che non è in grado di comprendere il significato di cosa significa morire, si chiede il pezzo di commento al dibattito che riporta la visione dei pazienti. Una visione che chiede che all’interno del nuovo paradigma della sanità ci sia sempre posto per l’umanità e per professionisti sanitari umani. “I pazienti hanno bisogno di essere presi in cura da persone, soprattutto quando sono malati e vulnerabili. Una macchina non sarà mai in grado di mostrare un vero conforto”, scrivono gli autori del commento. “Vediamo l’intelligenza artificiale come il servitore, non il direttore, della sanità”, è l’auspicio conclusivo.