Durante il Congresso ANMCO 2018 sono stati esposti i risultati di studi su rivaroxaban nei pazienti con malattia vascolare periferica e renale cronica.

Nello  studio Compassrivaroxaban a dosaggio vascolare aggiunto ad aspirina ha ridotto del 24% il rischio combinato di ictus, infarto del miocardio e morte per cause cardiovascolari. Nei pazienti con malattia periferica degli arti inferiori, inoltre, l’aggiunta di rivaroxaban ad aspirina ha ridotto  di circa il 70% le amputazioni maggiori da causa vascolare.

Rivaroxaban ha anche evidenziato un ottimo profilo di efficacia e sicurezza nei pazienti con compromissione della funzione renale.

Rivaroxaban nei pazienti con malattia vascolare periferica e renale cronica

Come sta cambiando l’approccio a oronaropatie, arteriopatie, tromboembolismo venoso e malattia renale cronica grazie alle nuove evidenze di rivaroxaban

Resta alto il cosiddetto “rischio residuo” nella fase post-acuta dell’infarto, nell’angina cronica stabile ad alto rischio e nei pazienti con malattia vascolare periferica. Diversi studi hanno, infatti, dimostrato che dal primo anno ai successivi cinque dall’evento infartuale c’è una recidiva di eventi cardiovascolari avversi, inclusa mortalità per cause cardiovascolari, di circa il 20%. Un paziente su cinque, dunque, dopo 3-4 anni da un infarto, può subire  una ri-ospedalizzazione, un nuovo evento infartuale, un ictus o un evento fatale.

«Negli ultimi 25 anni sono stati realizzati numerosi studi relativi alla coronaropatia stabile e alla malattia periferica ma, in realtà, non si è fatto altro che potenziare la terapia antiaggregante, senza mai osservare una riduzione della mortalità – ha dichiarato Leonardo De Luca, coordinatore Comitato Scientifico ANMCO. – Serviva qualcos’altro per diminuire questa frequenza di eventi. Lo studio Compass ha dimostrato l’efficacia di questo nuovo approccio sinergico, dando vita a un nuovo paradigma terapeutico: in pazienti affetti da coronaropatie e/o arteriopatie periferiche croniche, con rivaroxaban (anticoagulante orale ad azione diretta) utilizzato a dosaggio vascolare (2,5 mg x 2/die) e aspirina (antiaggregante) 100 mg/die, si è ottenuta una riduzione del rischio combinato di ictus, infarto del miocardio e morte per cause cardiovascolari del 24%, sia pur incrementando, come atteso, le emorragie maggiori, ma non quelle fatali né quelle intracraniche, rispetto alla singola aspirina».

«Lo Studio – aggiunge De Luca – ci dice che c’è ancora una possibilità terapeutica nei pazienti con malattia periferica degli arti inferiori, ossia la riduzione di eventi avversi che includono l’ischemia dell’arto. L’aggiunta di rivaroxaban all’aspirina ha ridotto le amputazioni maggiori da causa vascolare di circa il 70%. Questa è una vera rivoluzione terapeutica, importantissima sia per il clinico sia per il paziente, considerando che la malattia periferica è praticamente orfana di terapie».

Rivaroxaban in pazienti con malattia renale cronica

Nel corso del Congresso ANMCO sono state prese in analisi anche altre categorie di pazienti che necessitano di una terapia anticoagulante, pur avendo comorbilità che necessitano di attenzione nell’utilizzo della terapia anticoagulante stessa. Nel caso specifico ci riferiamo ai pazienti affetti da malattia renale cronica (CKD), che sono stati al centro di un altro simposio dal titolo “L’esperienza clinica con rivaroxaban: sicurezza ed efficacia nel paziente fragile”.

Le patologie cardiovascolari sono la principale fonte di mortalità e morbidità nei pazienti affetti da malattia renale cronica, con un’incidenza direttamente proporzionale al grado di compromissione della funzione renale stessa. Nell’ambito della patologia cardiovascolare che impatta sull’outcome clinico di questi pazienti, un peso fondamentale è rappresentato dall’incidenza di aritmie, in particolare della fibrillazione atriale che, in questi casi, raggiunge un’incidenza del 7% circa.

«Anche nei pazienti affetti da malattia renale cronica è indispensabile somministrare una terapia anticoagulante in grado di prevenire le complicanze tromboemboliche correlate alla presenza di FA, tenendo presente che, di per sé, questi pazienti, rispetto alla popolazione generale, presentano un rischio maggiore di ictus e sanguinamenti – ha dichiarato Luca Di Lullo, dirigente medico presso l’U.O.C. Nefrologia e Dialisi dell’Ospedale “L. Parodi – Delfino” di Colleferro. – Rischio che aumenta ulteriormente nei pazienti in trattamento dialitico. Per questo motivo, considerando anche gli ultimi dati di letteratura, che confermano un certo grado di pericolosità della terapia con warfarin in questi soggetti, il trattamento anticoagulante con antagonisti della vitamina K, viene prescritto con estrema cautela».

Perciò, l’avvento degli anticoagulanti ad azione diretta ha destato molto interesse, anche per il loro possibile impiego nella popolazione di pazienti affetti da malattia renale. Con opportune riduzioni di dosaggio, infatti, questi farmaci possono essere somministrati fino a valori di filtrato glomerulare (eGFR) pari a 15 ml/min/1,73m2.

Nell’ambito dei NOACs, rivaroxaban ha evidenziato un ottimo profilo di sicurezza ed efficacia nei pazienti con compromissione della funzione renale, con risultati clinici superiori a quelli evidenziati con warfarin.

«Diverse review hanno posto in primo piano il ruolo del dosaggio di 15 mg al giorno di rivaroxaban in pazienti con eGFR compreso tra 15 e 49 ml/min/1,73m2 – aggiunge Di Lullo, – evidenziando non soltanto una riduzione dei sanguinamenti maggiori e degli eventi tromboembolici rispetto a warfarin, ma anche un impatto favorevole sulla prognosi renale, come la riduzione degli episodi di danno renale acuto e del rischio di progressione della patologia, elemento che trova riscontro anche nell’analisi del sottogruppo di pazienti con malattia renale arruolati nello studio registrativo ROCKET – AF. Sostanzialmente, nei pazienti con malattia renale cronica, l’impiego di rivaroxaban al dosaggio di 15 mg al giorno deve essere incoraggiato sia per l’efficacia e sicurezza evidenziate nella letteratura scientifica, sia per elementi di pratica clinica, quali la monosomministarzione giornaliera, fattore molto importante per pazienti politrattati come quelli che stiamo prendendo in considerazione».

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